di Vito Barresi
Esistono ancora i giovani in Calabria? A giudicare dal numero di suicidi, ultimi nella loro più recente chiamata all'ordine di questa tragica leva, un diciottenne e un ventottenne di Cosenza, si direbbe che i giovani ci sono, esistono, nonostante siano sempre di più invisibili, sfuggenti, molto spesso, problematicamente e drammaticamente indecifrabili.
C'è un bel film di animazione, La bottega dei suicidi di Patrice Leconte, che racconta quando la vita rischia di perdere di prospettive e traiettorie vitali, incartandosi nella strada senza uscita, nell'apparente non senso obbligato del suicidio, in tanti modi. Un film coraggioso che ha tentato di introdurre nella delicatissima questione psicologica e sociale, una prospettiva diversa, affermativa, disinnescando i troppi messaggi negativi.
Tuttavia prima di stabilire perché si finisce per scegliere la corda dell'impiccagione, piuttosto che il colpo di pistola alla testa, il tuffo da un ponte o la caduta da un palazzo, l'overdose o lo schianto ad alta velocità, c'è da chiedersi con premura, a differenza del passato, dove e quando inizia, qui in Calabria, a farsi largo la volontà di farla finita con se stessi e con gli altri, non altrove ma in una regione violenta, estrema, moralmente liminare e culturalmente confinante come la Calabria, dove non c'è né gioco, né libertà, né tanto meno amore e delicatezza nei confronti della sempre più marcata fragilità di adolescenti, ragazze, giovanissimi, costretti in un mondo di anziani, per non dire vecchi, che li ha ridotti a una specie di riserva indiana esclusa e socialmente autoreferenziale.
Iniziare a comprendere dove si trova il loro spazio sociale e quale sia il tempo reale in cui irrompe improvvisamente il 'mistero' del suicidio significherebbe per la Calabria scoprire nuovi e inediti territori della sofferenza e del disagio generazionale, non solo dei giovani ma di una sempre più deformata mappa della vita.
Inutile dire che per quanto personale e individuale ogni suicidio scuote la coscienza sociale, svelando a staffilata negligenze e miserie dell'intera collettività. In generale, un suicidio non è mai l'esclusivo fallimento di una vita. Spararsi in testa con l’angolazione giusta, saltare da un piano troppo alto, bere un sorso in più di candeggina è una pena capitale che non può destare scalpore solo quando, come nel caso di Orsola Fallara, c'è di mezzo la politica, gli intrighi del potere, gli insensati sadismi di qualche rivale che ha fatto altrimenti carriera. Anzi la politica, senza più piagnistei né solite facce d'occasione, è chiamata ad entrare nel campo dei suicidi, non per fare sermoni ma per trovare soluzioni credibili all'impressionante crisi generazionale in cui si trovano migliaia di giovani e di donne calabresi.
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