di Vito Barresi
Oppido Mamertina? Ma non era la piccola scena di un feudo di stanza nel Decamerone calabrese, presidiata nelle mappe letterarie del sud, da un romanzo proprio lì ambientato, straordinario affresco di vita e di passioni, carne e spirito, sacro e profano, altrimenti intitolato Il Previtocciolo?
Si, siamo ancora in quel luogo narrato in un libro che suscitò scandalo e scalpore, quando uscì (incantevole la cover disegnata da Silvio Coppola), nella collana dei Franchi Narratori Feltrinelli 1971.
UN TESTO IRREGOLARE, rispetto ai parametri della letteratura meridionale, scritto da un prete, Don Luca Asprea, alias Carmine Ragno, un diacono aspirante sacerdote, che raccontava uno spaccato di vita sociale e religiosa, testimonianza diretta di una antropologia ecclesiastica in cui si mescolavano dal vivo sesso e 'ndrangheta, diavoli ed acque sante, incenso e profumate voluttà erotiche, sangue e piacere, vendetta ed erotismo, infanzia e maturità.
In quella rutilante microstoria di comunità, straordinariamente affine all'affabulazione storica di Carlo Ginzburg, la morale attingeva, e ancora mantiene le sue radici, i propri motivi valoriali non nelle leggi scritte e positive dello stato ma in quel diritto popolare, contrapposto o strumentalmente prono a quello egemone, fatto di norme consuetudinarie, antiche usanze, costumi e proverbi del folklore malavitoso, quel micidiale e contorto 'habeas corpus' di diritto 'ndranghetista in cui da sempre si confondono il sud e la magia, la legge divina con quella degli uomini d'onore e di rispetto.
DON LUCA, IL PREVITOCCIOLO di Oppido Mamertina, prima di varcare la soglia del seminario, non ebbe scrupoli a partecipare al rito d'iniziazione, imbandito da un picciotto di 'ndrina per divenire 'parrino', senza aver paura dei versetti satanici del rituale 'ndranghetista, accettati e introiettati né come colpa né peccato rispetto ai formali precetti cattolici. Non a caso e acutamente, da raffinato giurista, Franco Cordero, domandandosi, come si vive la religione in una comunità del genere, rispondeva che in larga misura, essa era intesa come festa rituale senz’altra partecipazione del fedele fuorché quella provocata dal fatto scenico. La religione è un fatto visivo. E per quanto il mafioso non partecipi da vicino alla vita della Chiesa, non sia come si usa dire un praticante, nemmeno della domenica, egli sente, tuttavia, come proprio e inalienabile il diritto assoluto di proclamarsi cattolico, accettando e condividendo con ogni ostentazione e visibilità, tutti i riti fondamentali del Catechismo della Chiesa, cioè il battesimo, il matrimonio, il funerale, la prima comunione e soprattutto la cresima.
FORMALMENTE OSSEQUIOSO verso la Chiesa e la religione, l'uomo mafioso per questo conta sulla reciprocità della stima e dell'amicizia da parte dei preti e del clero. Nelle storie di paese casi di preti con la pistola sotto la tonaca se ne contavano a migliaia.
Oggi, nel 2014, dopo l'inchino di Oppido, il punto è capire quanti siano in numero i sacerdoti che ancora non si pongono la fatidica domanda, strana negli anni Cinquanta persino alle gerarchie vaticane, se 'è ancora lecito far parte della mafia per difendere i propri interessi.
Perché se questa volta non si tratta di semplici fantasmi, di una variopinta riapparizione o reincarnazione di un passato metaletterario, se invece il previtocciolo è ancora vivo, vegeto e solerte, allora occorrerà non cincischiare oltremodo in sterili teologie dell'antimafia ma attrezzarsi di una più moderna e assertiva dottrina sociale e cultura cristiana delle regole. Certo non sarà facile togliere la talare ai nuovi previtoccioli, con i tempi che corrono, con i mezzi che hanno a disposizione, con la corruzione devastante del tessuto connettivo postmoderno. Ma in ogni caso ci vorrà un supplemento di fede e coraggio per smettere di ballare assieme ai lupi.
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