di Vito Barresi
Sono pronte le valigie per il viaggio di Matteo Renzi a ferragosto in Calabria. Non ci saranno pause d’agosto a Palazzo Chigi, in questa estate 2014, dove più che le stagioni contano i giorni, le immagini, le frasi a scatto twitter, l'impressione che l'obiettiva certezza di andare avanti verrà anche dai voti di una regione ultima, borderline, marginale come la Calabria. Giocando d'anticipo prima che passi il rapido d'autunno dei destini incrociati sul progetto renzista, il dovere della politica chiama anche a ferragosto ad affrontare, aggredire e risolvere la contraddizione epocale e maestra del Paese, sfondare la nostra striscia di Gaza nazionale, la linea perfida e impenetrabile dell'anarchia e dell'ingovernabilità del sud, puntare gli incrociatori verso il porto di Calabria, per non retrocedere in Europa, narrare senza le storie del passato, un nuovo Mezzogiorno, inedito, potenziale, coraggioso, pronto ad un reale cambiamento di coesione e integrazione europea, a cui tutti stentano a credere e che forse a pochi conviene che cambi davvero, faccia primato di mutamento a dispetto dei suoi stessi King.
E nel far le valigie ricordati di non scordare qualche cosa di tuo che a te poi ci faccia pensare, una lirica di Pasolini, un soffio carducciano, un lembo alla De Amicis, una pennellata di Turchiaro o di Fiume, Carlo Levi o Guttuso, non una promessa o un classico rimando al poi vediamo, altrimenti tutto sembrerà tornare a illogica fatale tra le mappe della Calabria da riconquistare e riannettere all'Italia civile.
Perché, rovistando tra le cartografie sparse sui tavoli dei colonnelli renziani, ciò che ritorna perennemente in mente, di questa Regione Calabria, a chi in poche parole sta rappresentando lo scenario territoriale al novello Generale Buendia, anche senza attingere al fin facile indice del “volgar eloquio” fiorentino, sarebbero gli ultimi quarantaquattro anni di “lacrime e sangue” inflitti al popolo calabrese.
Lacrime dei profughi del lavoro, lacrime dei migranti in fuga dal tragico contesto di ‘ndrangheta omertà e silenzio, sangue dei morti ammazzati, sangue delle vittime innocenti di carnefici sequestratori, comparse e ‘guest-star’ di una guerra civile strisciante tra lo Stato che non c’era e la criminalità spavaldamente imperante.
Insomma niente di più che lo stridulo e antipatizzante rondò, di amaro retrogusto leghista, di “Regione ladrona”.
Regione ladrona, soprattutto, di speranze!
Ingrata e maledetta fin dal giorno che risuonò la squilla campanilista della lontana e arcaica rivolta dei “Reggio Boia chi molla”, ove irredentisti improbabili, venivano demonizzati neofascisti, eversori e bombaroli, può darsi intravidero la legittimità nativista e localista di un popolo sconfitto dalla quarta modernizzazione nazionale, quei maledetti e subito che furono gli anni settanta nati dal fracasso, con il pacchetto Colombo, le tasse e il piombo, Andreotti in sparato prima pietra a Gioia Tauro, cronache al gazzettino radiofonico di un chimerico quinto centro siderurgico, una caliginosa centrale a carbone, finalmente un megaporto e, fora gabbo, il capoluogo a Catanzaro, l'università a Cosenza, il Consiglio regionale ambulante a Reggio Sbarre, il resto mancia ai sottopolitici di stallatico e buzzurro contado crotonese che pure avevano le fabbriche.
Invettiva anti calabrese, semplice romanza della politica?
Che qui, nessun dorma, manco più gli asini che ragliano ai vespri elettorali, neanche il coro barocco con nenia recitante di qualche Giufà intelligente, cospargitore di tollerante veleno d’amara illusione sui corsi Mazzini a norma Cee, galoppini di partito sfiniti per adusa prigionia in un sistema infelice, per sottomissione pirandelliana in questa piramide meridionale dove si accatasta tutto il marcio della vita regionale.
Regione ladrona e anche carrozzona!
Avida di potere, Schilok scespiriano di pubbliche risorse. Imponente aspirapolvere di fondi occulti distratti dai finanziamenti europei. Regione ladrona di autonomia, impegno, progettualità, idealità che veniva a fiumare, ruscelli e alluvioni dai piccoli comuni a presepe in cui si credeva ai comunisti ai socialisti ai democristi, dalle piane bracciantili e olivicole, dalle colline zampognare, dai monti aspri o altipianeggianti di pascoli silani.
In coda alla storia sono loro, perché dei territori che lottavano con l’ira della classe (la nostra Calabria si chiama Melissa), fin dalla prima ormai lontana riunione dell’assemblea regionale, per la programmazione, lo sviluppo e il lavoro, dopo le ruspe del malaffare è rimasto soltanto un deserto d’emigrazione, un silenzio di rabbia senza amore.
Di fronte al disastroso bilancio politico-amministrativo di questa Regione Calabria, vorremmo pensare all’altro impossibile mondo normale che ci hanno derubato, per cui ovunque spira tra i calabresi, nelle ‘banlieu’ del sud estremo, nelle contrade piombate nell’assurdo surreale di un inferno chiamato euro, il vento del rancore, della delusione, del disincanto e della vendetta.
La burocrazia del sottosviluppo che ancora si arrocca a Catanzaro, foraggiata dal potere politico di turno sia di destra che di sinistra, ha messo in atto ogni azione di freno e di rigetto cercando di escludere i territori, di difendere i propri vantaggi e le proprie rendite di posizione, tenendo gli uffici regionali sotto la ferrea legge della chiusura verso gli estranei, mettendo in atto una forma terrificante e sovietica di protezionismo amministrativo, economico e sociale.
Vero e proprio ceto di feudatari, valvassori e valvassini di un regionalismo arpia, beffardi di ogni verifica legale da parte di una magistratura, per troppi decenni pomposa e “ermellina”, nell’ancillare portamento verso i sempre cosiddetti poteri forti: ecco il freno al cambiamento e all’innovazione delle nostre società locali, provinciali, di una regione depredata. Bordeggiando a capo di una manciata di settimane dalle prossime elezioni regionali, territori e comunità della Calabria sono chiamati a far un punto: come non essere più escluse e maltrattate, come partecipare alla rottamazione di una vecchia Regione per progettarne e costruirne un'altra, all'altezza della nuova era del renzismo, una Regione europea, aperta, pluralista e sostenibile.
Anche se a conti fatti non c'è più il tempo per pensare a un rinnovato confronto, attivare partecipazione democratica, all’interno di un quadro politico nazionale profondamente mutato rispetto al più recente passato, l’obiettivo strategico potrebbe essere quello di aprire un ‘pre-print’, un laboratorio regionalistico, socialmente condiviso e culturalmente partecipato, disegnare un modello economico e sociale autenticamente calabrese, intelligente e non asservito alle logiche dei gruppi affaristici e alle cordate di potere che hanno sconquassato persino gli equilibri di una società tradizionalista.
Solo nel respiro più ampio di una politica più libera, capace di una propria mobilitazione autonoma si potrebbe ritrovare l’energia necessaria per rimodulare la geografia economica e politica della Calabria.
D'altra parte proprio in alcuni specifici ambiti di vivacità progettuale e generazionale (sia young che old) sarebbero pure visibili i prototipi di un neoregionalismo capace di superare la confusione in cui la vecchia oligarchia politica del regionalismo autocratico e clientelare ha impantanato la Calabria. Il film dei limiti politici soggettivi e delle tare gestionali ha già raccontato l’emblematico copione di un fallimento con scene madri tipo il trasferimento farlocco delle deleghe agli enti locali, il letale e ancora incontrollato governo del Por che, da lezioso libro dei sogni è diventato l’enciclopedia degli incubi e degli imbrogli perpetrati ai danni delle piccole e medie imprese.
Il neo-regionalismo, diciamolo pure a modello tosco-renziano, di cui si avvertirebbe il bisogno, dovrebbe essere contro ogni esclusione e disuguaglianza. Promotore e sostenitore di una politica e di un programma d’inclusione dei territori e delle comunità in un più ampio progetto mediterraneo ed europeo.
E’ tempo di una rivoluzione neoregionalista per costruire nuove istituzioni, impalcare una struttura politica sempre più areale, reticolare e distrettuale, dove i luoghi della politica sono nodi di una rete sempre più estesa e interconnessa, attivando un costante dialogo, un filo diretto con le esigenze, gli input sociali e feedback d'ascolto e ritorno con le popolazioni. Il futuro del regionalismo calabrese, punto di svolta di un moderno meridionalismo, può tornare nelle mani dei cittadini solo se i territori saranno orientati e assistiti da guide illuminate, da leaders di posizione colti, saggi, tecnicali, coraggiosi e condivisi. Non più preda dei trasformisti di turno e dei campioni della transumanza. Né tanto meno vittime del caporalato di un sempre minaccioso e attivo partito del voto di scambio.
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