di Vito Barresi
Almeno per quest'anno, mettetevi l'anima in pace, state buoni se potete, che il padrone della festa, si proprio così, il padrone della più antica festa dei lavoratori, sarà soltanto lui e non i soliti 'tre soliti mesti ragazzi morti' che da anni ormai neanche più parlano ai rituali comizi della loro quarta età.
Sì lui, proprio lui, e chi ci avrebbe creduto fino all'altro ieri che aveva questo sogno nel cassetto, il Presidente Matteo Renzi, che in diretta planetaria, in collegamento mondovisione, novello Grande Timoniere dell'Expo 2015, sbaraglia all'Auditel l'ormai melenso concertone rock-pop-folk, sprofondato al rango di tv locale a sagra strapaese in Piazza San Giovanni a Roma, apre con allegria, allegria, la colossale kermesse universale sognata e voluta nel cuore pulsante della stracittà italiana per eccellenza, Milano vicina l'Europa, Milano che banche che cambi, Milano a portata di mano ti fa una domanda in tedesco e ti risponde in siciliano, Milano araba fenice, novecento socialista, duemila futurista, ancora al centro del pianeta stipato nel mercato sottostante che aspetta un avveniristico déjeuner sur l'herbe.
Sarà finalmente, ironia della sorte, il profeta del job acts, il Mosè della deregulation del lavoro salariato, il nuovo e unico padrone del Primo Maggio che fu simbolo del movimento operaio, stemma del veterocomunismo, emblema della triplice sindacale. Da perfect showman che padroneggia l'inglese commerciale come il dolce stil novo fiorentino, dopo aver infilzato come una bistecca chianina gli ossi duri che lo volevano far pollo, attraversa guardando il sol dell'avvenire, il suo personale arco di trionfo politico alla guida di una 'gloriosa macchina di guerra', messa a punto senza aspettare un lustro, un partito collettivo tramuto in personale, sagomato in forza politica a una dimensione, nato dalle macerie della seconda repubblica.
Primo maggio di festa senza i titoli rossi dei nostri giornali. Tutto dopo aver spianato in un turbine frenetico di colpi a sorpresa ed effetti speciali, tabellati in un implacabile cronoprogramma per annientare ribelli e refrattari, i vecchi arnesi della sinistra postcomunista, gli onnipotenti apparati degli uomini grigi della ditta, ora al tappetto a Montecitorio, rancorosi e stanchi, incapaci di riprendere in mano lo scettro del potere sull'apparato di partito. Scorrono sui teleschermi le immagini evocative della nuova festa del renzismo che avanza in camicia bianca.
Sul tetto delle nostre aspettative, così basso che si potrebbe anche toccare, la vita media di una prospettiva politica, era solo una campagna elettorale. Suggestive, stranianti, global think. Solo a un punto, per farci caso un istante, in quel frame sembra di vederlo tutto a colori il live del nuovo padrone della festa del Primo Maggio.
Si, proprio lui, il Giovin Matteo che alla moda mood calca le tavole del palcoscenico con ampia sprezzatura. Un puledro, un cavallo di razza come diceva Fanfani l'aretino, che in disparte canticchia in toscano la bella canzone padana. Così alla voce della contentezza, senza la chitarra di Gianni, né quella di Francesco e di Eugenio, ancora come un tempo. Tanto che anche in Piazza Duomo qualcuno avvertirà l'eco lontano di una sommessa voce operaia in cassa integrazione: ‘saluteremo il signor padrone per il male che ci ha fatto, che ci ha sempre maltrattato, fino all'ultimo momen'...
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