di Vito Barresi
Caduto in una pozzanghera di vergogna e degrado senza precedenti, il pachiderma della politica calabrese, che risponde non solo di sé, Mario Oliverio, ma anche di un inquietante contesto sciasciano di liste satellite, partiti e faccendieri, serenamente affiliati alla sua coalizione amministrativa, riuscirà a rialzarsi dopo il duro colpo inferto dal giudice De Raho, a quella vera e propria porcilaia pasoliniana in cui politicanti senza pudore hanno ridotto il Consiglio Regionale a Palazzo Campanella?
Una domanda non retorica quanto politicamente legittima perché a essere travolto e infamato dall’inchiesta della magistratura reggina non è un Consiglio, indegnamente già passato nell’archivio della storia del regionalismo calabrese, quanto e per intero la Giunta regionale attualmente in carica, composta, scelta e fortissimamente voluta, anche contro le diffide dello stesso Matteo Renzi, da un Presidente di Regione che, a questo punto, non può più tirarsi fuori dalla mischia, magari dichiarandosi ritualmente vergine immacolato e persona di illibati costumi.
Mario Oliverio, per la sua corte levantina altrimenti detto ‘Maruzzo e palla palla’, era e resta un elefante di Pirro che ha facilmente conseguito una vittoria a porta libera, in tempi, clima e condizioni che forse adesso, meritano di essere setacciati più minuziosamente in controluce e di contropelo. Di questo ex comunista, di cui si parla agiograficamente un gran bene come un santino, nient’altro che un ‘gerardo’ gerarca della vecchia partitocrazia di stato, culturalmente refrattario e produttivamente inutile per l’efficienza istituzionale repubblicana e regionale, si racconta che un tempo al suo paesello, patria di studi gioachimiti e capitale della pataticoltura sedicente cooperativista, lo chiamassero con il nome del tiranno romeno, Ceausescu di San Giovanni in Fiore, ras incontrastato dei forestali, attento conoscitore dei grandi e anonimi padroni della Sila, quelli che vanno dal colosso monopolistico e multinazionale dell’Enel, ai proprietari dei boschi e della immensa e profittevole risorsa boschiva del legno e delle acque sorgive e lacustri, nonché ai grossi agrari del latifondo pataticolo e del pascolo bovino e caseario.
Più che mai nell’attualità appare purtroppo evidente al popolo calabrese che non uno ma tutti gli uomini del presidente sono finiti dritti dritti sotto accusa, iscritti nel registro degli indagati con un ben preciso, determinato e necessario numero di protocollo penale.
Tanto che l’equivoca e ambigua giunta del tridente, da lui persino caparbiamente e volitivamente difesa fino a inorgoglirsi, risulta azzoppata non solo dall’incalzante azione inquisitoria che ne ha minato la credibilità ma anche dal crollo di affidabilità, imparzialità e trasparenza nella gestione delicata della Cosa pubblica, che fa venir meno in tutti il senso della sicurezza e della libertà. Un dubbio che s’estende e s’adombra anche su possibili altri tristi e beceri scenari di mala amministrazione che pure potrebbero improvvisamente venir fuori allorquando, venissero a cedere le dighe di omertà e connivenza che frenano la definitiva caduta nella polvere di una ben definita cerchia di professionisti della mano e degli affari pubblici che si è impadronita della Regione Calabria, instaurando un vero e proprio regime dispotico in palazzi, uffici, dipendenze e quant’altre dimore a disposizione.
Quale diversa lettura dare altrimenti di provvedimenti draconianamente connotati come quelli emessi dalla Procura reggina che impongono ad alcuni sodali storici di Oliverio di non mettere più piede nella nostra terra, legalmente esplusi e politicamente inibiti, di fatto iscritti nella lista di proscrizione, di esercitare ogni ulteriore azione politica in Calabria?
O forse Oliverio vorrà continuare a mantenere, tramite ben noti e familiari ufficiali di collegamento, a intrattenere con tali reprobi, scambi politici e di potere, conversazioni telefoniche, magari invitandoli a un aperitivo contadino nello stand regionale di Expo a Milano?
Non sarebbe meglio per la democrazia di questa vilipesa e defraudata regione, letteralmente sbranata e fatta a brandelli da un’orda di politicanti corrotti e venduti, per quel che Oliverio vanta in curriculum, per non disonorare ulteriormente la memoria di quella galleria di suoi illustri maestri di folkcommunism, predecessori sangiovannesi, che vanno da Paolo Cinanni a Gino Picciotto, a gettare la spugna, presentando, con berlingueriana dignità e servo encomio alla tanto sbandierata questione morale sempre brandita contro gli avversari, già nottetempo, e senza indugiare oltre le sue immediate e irrevocabili dimissioni?
Prendere atto che l’impeachment di Oliverio è già un fatto politicamente maturato nella pubblica opinione significherebbe in sostanza avere il coraggio non solo delle idee ma anche delle scelte. Dimmettersi sarebbe un gesto di minima coerenza che, seppur scetticamente, tutti i calabresi, vorrebbero avvenisse.
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