di Vito Barresi
Oltre la soglia del nulla politico, la Regione Calabria sta entrando, in piena estate, ancora una volta in sala travaglio per l’annunciata nascita di una nuova giunta, la Oliverio bis o tris che dir si conti, insomma per far da levatrice dell’ennesimo parto di un politico pesante. Racconta minuziosamente certa cronaca (“ed eccoli, Nicola e Mario attovagliati al tavolo di "Capo Boi", un buon ristorante sardo nel cuore dei Parioli, in via Arno. Dialogo fitto, a tratti anche complicato”…), che per malcerto galateo pur non cenna su chi abbia poi pagato il conto e a chi toccherà esibire lo scontrino fiscale, di un Presidente in qualche modo intimidito dal posto a tavola proprio in una nicchia del gusto di Sardegna che involontariamente rimbalzava e chi di berlingueriana memoria e sentore di questione morale. Tuttavia, ingoiato il primo boccone, sospinto dalla gagliarda voglia di resistenza contro i populisti della buon costume, il suo desinare pare sia scivolato cordiale, farcito di golosi approfondimenti sui destini della mano pubblica nella regione più arretrata d’Italia e tra le più inquisite d’Europa.
Certo Oliverio e Adamo, in conviviale riunione, non avranno mica discettato solo di corruzione dei principi democratici, ossia di quelle passioni umane che decretano ascesa e decadenza del potere renziano, non avranno solo posto mente locale sullo stato di servitù politica in cui è sprofondata la Calabria. Anche se un pensiero all’eroismo della schiavitù politica sopportato da milioni di calabresi, ci stava anche, vista la loro libertà ridotta a un genere di lusso, persino insopportabile in una società diseducata a goderne i benefici. Ma i due vecchi gentleman della sinistra cosentina, reduci e non caduti della gloriosa leva della diversità comunista, giunti al dessert, si saranno salutati alla maniera di Ingrao e Pajetta, giurando eterna fedeltà non più al partito, quanto piuttosto sul bene dei figli che non sul bene comune delle vessate popolazioni meridionali.
Mario e Nicola, com’è noto in giro, formano da sempre una sorta di ‘pacs’, cioè un patto civile di solidarietà e convivenza politica di lunga durata, basato sul sentimento dell’amicizia, sulla passione dei ‘compagnons’, dunque su quella legge non scritta della fedeltà e dell’onore reciproco che fa santi i privati ma non sempre virtuosi gli uomini pubblici. Da qui l’interrogativo su quali siano i limiti, oggettivamente insormontabili, sia giuridici che morali, per il rappresentante di un’istituzione dello Stato rispetto a quelli imposti a un qualsiasi altro cittadino, a cui un altro potere costituzionale, la magistratura, abbia formalmente e fortemente condizionato la libertà personale, a tal punto da assegnarlo al soggiorno obbligato in altra dimora diversa da quella del proprio comune di residenza.
Da qui l’interesse non al gossip, non all’ipocrita tenerezza suscitata dall’edulcorato quadretto della rimpatriata (che qui non si tratta dell’esilio di ‘Addio Lugano bella’ ma di ben altre infamanti accuse), a comprendere, non fosse altro che per motivi di opportunità e di etica pubblica, se come e quando, oltre il melenso romanticismo, al di là della soffusa poetica di quel legame amicale, primario e pre-giuridico che avvinghia Oliverio e Adamo, possa insistere, anche qualche altro tipo di rapporto, per così dire ‘necessario, determinato e soggettivo’, atto a condizionare anche la più insignificante scelta pubblica del Governatore.
Lungi da noi a pensarlo ma se, in astratta quanto remota ipotesi, così fosse quale sarebbe il grado di credibilità e di affidabilità, agli occhi dei calabresi e degli italiani, di quei giudici (tra cui spiccano le adamantine figure di De Raho, Lombardo, Gratteri, Bruni, Luberto, ecc.) che in Calabria hanno intrapreso una lotta senza quartiere alle zone grigie dell’omertà e della corruzione? Certo la tendenza delle istituzioni rappresentative di questa regione continua inesorabilmente a gravitare verso il basso, anche a considerare i sempre più pesanti silenzi caduti in seno alla Commissione Parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi, dove siede una ‘commissaria’, la signora Enza Bruno Bossio in Adamo, evidentemente soggetto passivo di un’inquietante ‘conflitto’ di tipo ‘familistico-morale’.
A meno che Oliverio, come il barone di La Brède, post prandium stabis, non sia ‘disposto ad essere il confessore della verità e non il suo martire’.
Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.