di Vito Barresi
Muovendomi per le vie di Bologna anche ad insistere, oltre la smisurata calura di quest’ultima estate che non finisce mai, purtroppo non si scorge alcun riflesso del mondo che cambia se non quelli della fatica e della sofferenza nel cercare di stare al passo coi tempi di un vecchio e glorioso stemma municipale.
Eppure, avverte il professor Felice, studioso di assoluto valore mondiale, apostolo del pensiero di Montesquieu nel tempio convulso di Alma Mater, dove insegna la mitezza politica dell’illustre vignaiolo francese, per capire il capoluogo emiliano val sempre il breve mordente del Journal de voyage: “quando arrivo in una città, vado sempre sul più alto campanile o sulla torre più alta, per vedere l’insieme”.
Da San Luca che vuoi che si veda… se non la caotica poltiglia del cemento urbano e dell’asfalto automobilistico. La città, nelle mani oligopoliste dei fondi sovrani, al cui servizio agiscono agenti immobiliari oscuri e noti di un’immensa rendita latifondista in condominio, la si riconosce nella sua dolce e padana luce felsinea. Le si può persino parlare sottovoce, sussurrare un sorriso compiaciuto e leonardesco, sorpresi, liberi e lontani dalle preghiere di partito nelle chiese foranee. Persino sfiorarla con le dita sul landscape, una fantasy tecnologica, mentre nel vuoto sotto le scarpe ti passano in mente le immagini di un anonimo delitto di quartiere, tre barboni in via Zamboni, un corteo demodè di movimenti esclusivisti, l’intervista al mago delle canzoni che parla di calcio, quella al sindaco che va dai poveri a far finta di assaggiare alla mensa di signori.
Tutte questioni che si afferrano in un istante e poi passano nel cuore senza sedimento profondo, memoria del vissuto che va nell’ordinato archivio di un Bologo, quasi una vita passata veloce senza rendersene conto. Ieri la città si vedeva a mala pena tra le immagini ingoiate in fretta che poi trambustano nello stomaco come un boccone sapido di mortadella tagliata in fretta in una formaggeria casereccia.
Ma questa non è Roma e neanche Milano, nemmeno Firenze, Napoli e Torino. L’Italia intera da sempre “Sogna Bologna” nel mentre ovunque, nei cortili e nei vicoli ciechi e muti, si stagliano le ombre di sequenze oniriche di una pellicola proiettata sui muri di via Guerrazzi, in perenne ricordo di altri ‘flaneur’ di nome Pasolini, Avati, Guerra, Rambaldi, Fellini, lo scrigno appassionato e decadente di certo neorealismo con lirici accenti zadnovisti.
Tutti, grandi e piccini, nonne e nipoti, la includono come perla confidenziale nel proprio personale grand tour, l’itinerario di grazia e di bellezza che ci rende consapevolmente italiani. Molti la usano ancora per le fiere, per i loro passaggi commerciali ma anche per intrighi affaristici, uno snodo importante nella stanza dei bottoni e nel deposito dei sempre più radi Paperoni.
Dalle Torri, all’opposto, scorgi invece l’insieme di una ricchezza sfolgorante che scivola veloce e ‘cotidie’ su una folla solitaria ed automatica, sui conati fisici e morali di una povertà in sequela che tace e tracima in ogni angolo di una città al bivio con se stessa che non sa scegliere se tornare un borgo antico con le sue belle bettole canore, gentile decoro posticcio dei più arroganti ristoranti alla new yorkese, oppure l’avamposto italiano di un nuovo, inedito, futuro di una agognato civiltà neo-europea, insomma, quello che mi viene da dire come fosse ‘l’Umano Comune di Vivere Bologna’.
Per il momento dagli Asinelli, una delle due più antiche Torri Gemelle del mondo, si vede al basso il selciato rifatto per intero ancora bianco e impastato di calce, polveri e cemento. Altrove (ma che potrebbe importare al reporter del New York Times?), di questo ‘ground zero’ scavato per mesi attorno a uno dei monumenti simbolo dell’immagine italiana si sarebbe parlato con cronache dai toni epocali, di un vero e proprio ‘working show’ che ha cambiato lo skyline della Garisenda. Ma sarà per via della prevalenza di un vicino Expo, alla fine in pochi hanno messo punto e dato risalto all’incredibile ‘scempio’ di una strada d’arte ridotta a un lastricato da pompa di benzina.
Racconta Adriano, un veterano dei posatori italiani, che le vecchie basole divelte venivano dal Lago Maggiore. E che questo nuovo è un materiale lavico, un granito Made in Cina tagliato dove ‘Yu Kung rimosse le montagne’ che ha fatto risparmiare l’amministrazione civica sia sul costo del basolato ma anche dal punto di vista ecologico, salvaguardando le cave dei nostri ameni laghi e fiumi con ottime ricadute in termini di prevenzione idrogeologica.
Sta di fatto che tra vecchie e nuove pietre sono i cinesi che hanno cambiato il volto in primo piano di Bologna, con un ‘work in progress’ o meglio un vero e proprio ‘work in tower’ durato mesi sotto lo sguardo attento degli umarelli, davvero un teatro di posa messo in scena nel salotto buono della città.
Eccolo il frammento di mondo che stavo cercando. Scatto una foto all’abile e qualificato lavoratore del grande oriente che insieme al suo compagno albanese ha rigenerato via Rizzoli. Si chiama ‘Hu scitan’, tradotto in italiano, Sergio. Adam Smith a Pechino e Sergio sotto le torri bolognesi. Carico su un social la cartolina con dentro tutto lo spleen, la solitudine dell’operaio cinese, voce del verbo proletariato globale. Dalla playlist spunta ‘Vorrei incontrati tra cen’tanni’. Solo per sapere chi sarà il cinese che Bologna ricorderà in futuro.
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