di Vito Barresi
Che magnifica dinastia quella dei Brueghel, giovani, vecchi e nipoti, capostipiti ed eredi, una famiglia di pittori fiamminghi che ritorna in saga bolognese, per gli appassionati dell’arte dei villaggi della Contea di Fiandra. Magnati e professionisti di una tecnica e di un creatività artistica senza precedenti, erano a tal punto stretti dal sentimento ereditario del legame familistico, da essere sempre sicuri di sé stessi, scevri da critiche, insidie dell’invidia e attacchi personali, laboriosi e operosi, orgogliosi e potenti, tanto da permettersi persino di far pisciare all’aria aperta, con limpidi e trasparenti zampilli, soldati in armatura, bambini grassocci, contadine rubiconde e convitati nuziali eccitati, senza far perdere una sola stille di ‘glamour’ all’incanto scenico e paesistico dei loro meravigliosi e inimitabili, puliti e limpidi dipinti di un epoca, un mondo tardo medievale ormai proiettato nella nuova era della modernità europea ed atlantica.
Si perché il primo curioso, ‘of course’ positivo, ‘tranello’ di questa ‘exhibition’ bolognese, che si staglia nel titolo principale ‘Brueghel’ e in quello secondario più ‘sfumato’, se non altrimenti vago, ‘capolavori dell’arte fiamminga’, allestita dalla società Artemisia, è la prospettiva dinastico-familistica. Vero asse interpretativo dato a questa mostra dai curatori Sergio Gaddi e Andrea Wandschneider della Galleria Comunale di Paderborn, esso offre l’opportunità di attraversare una densa pagina di pittura fiamminga, passando dal singolare al plurale, dal primigenio incipit del fondatore alla ampia produzione delle tre generazione successive di figli, figlie, mogli, mariti, nipoti, parenti e affini.
Avvolti in questa tramatura genealogica i visitatori prestano attenzione andando di quadro in quadro, da ‘Brughel ai Brughel’, in un gioco cangiante di sovrapposizioni e richiami, destinato a far scorgere (ma nell’allestimento purtroppo a non dare sintesi né coerenza) la struttura materiale di una vera e propria scuola, la vita di bottega plurisecolare (come nel famosissimo L’alchimista) un perenne e prestigioso stemma artistico cinquecentesco.
Tutto ebbe inizio con Pietr Brueghel detto ‘il Vecchio’, ‘il Brueghel dei contadini’, il capostipite che sta al vertice del registro araldico, sulla cui vita ancora aleggia un fitto mistero, in larga parte riflesso del clima politico coevo, fatto di disordini, micidiali contrasti religiosi, guerre, carestie e saccheggi, seguito in cronotassi da Pietre Brueghel il Giovane, Jan Brueghel il Vecchio, Jan Brueghel il Giovane, Abraham Brueghel, Ambrosius Brueghel e altri cosidetti ‘Brueghel minori’. Le avite stanze di Palazzo Alberganti accolgono in un interessante insieme di ‘frame’ a pellicola, un ritratto anche se non organico della vita artistica e familiare, una catena endogamica da cui emerge l’humus culturale e stilistico di un clan fortemente coeso nell’impegno di custodire e perpetuare i propri valori, la comune cura delle memorie d’arte sia nelle tecniche che nella permanenza delle forme figurative di stampo brugheliano.
Anche se la mostra non gioca sull’effetto della sorprendenza, se talvolta forse neanche ti emoziona poiché non punta deliberatamente al tocco del sublime e del meraviglioso, l’incanto scocca, fino a fare differenza, quando si resta stupiti e rapiti tra gigli rossi e mazzi di fiori, tulipani e rose, vasi di vetro e fritillaria imperialis, vanità delle vanità, tutto è vanità, coccinelle libellule farfalle, fiori dipinti in pendant da Ambrosius Brueghel, nell’epoca in cui le donne ancora non conoscevano il reggiseno.
Forse se c’è un difetto in questa singolare mostra dei ‘Brueghel minori’, non sappiamo dovuto a contingenze selettive o scelte interpretative, e che alla fine del percorso resta, paradossalmente in ombra, proprio l’uomo chiave della saga bruegheliana. In fuga dalla lunghissima giornata oscura del Medioevo, l’antenato venne maturando il proprio talento illustrando mantinente un mondo in violenta e rapida transizione, la tensione dilagante tra angoli e scorci di campagne e città desiderose di liberarsi da un’immensa solitudine di sofferenze. Tanto formò l’opera di un artista saggio e sapiente la cui trama morale, restò fortemente intinta in una visione cosmica e pessimista. Per come ancora si può scorgere nel suo sguardo esemplato dall’Autoritratto custodito in quel di Vienna che a Bologna non c’è. Neanche in copia.
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