CAMBIO | Quel pericoloso filo di plastica che lega le ostriche all’hula-hoop

Faccio parte di un’orribile categoria umana: quella dei condivisori di foto e video di gatti su Facebook. Peggio ancora. Condivido anche foto di gufi, capre, cavalli, cani, armadilli, porcospini, gorilla, volpi, camaleonti… Uno dei miei video preferiti è quello con le mucche che ascoltano When the Saints Go Marching In suonato live da due jazzisti in mezzo alle montagne. Secondo uno studio (non saprei citare la fonte, ma si dice in giro che sia così), tutte le donne della mia età senza figli lo fanno. Non ascoltare il jazz… (o magari sì) ma condividere foto di gatti. Non sono però tra quelle che postano foto di animali sofferenti. Non ce la faccio. Sto troppo male. Penso solo che un gatto bruciato sia opera di un malato di mente. In alcuni casi faccio delle eccezioni: per esempio quando vedo la foto di una tartaruga marina cresciuta con il carapace deformato per colpa dell’imballaggio in plastica delle bibite in lattina. Le materie plastiche sono diventate negli anni un elemento di grande preoccupazione soprattutto per quanto riguarda gli ecosistemi marini. La plastica inquina spiagge, si accumula creando immensi territori di spazzatura galleggiante, è consumata da uccelli, pesci e altri animali. Si stima che più di 250.000 tonnellate di rifiuti di plastica si siano già accumulate sulla superficie dell’oceano (La Costa Concordia ne pesava 114.000). Durante il World Economic Forum del 2015 è stato distribuito un opuscolo dal titolo: La nuova economia della plastica, ripensare al futuro delle plastiche. Secondo questi studi entro il 2050 nei nostri mari avremo una percentuale più alta di plastica che di pesce. Come dicevo, siamo tutti consapevoli dei danni provocati dalle cosiddette macroplastiche grazie alle immagini di tartarughe e uccelli soffocati da imballi e buste abbandonate nell’ambiente. Secondo uno studio di Wilcox e colleghi, il 90% degli uccelli marini ha della plastica nell’apparato digerente. Poco invece sappiamo dei danni provocati agli organismi viventi dalle microplastiche sulle quali si sta concentrando l’attenzione degli scienziati. Per questo motivo lo studio sulle ostriche è così importante: purtroppo conferma l’urgenza di agire sul problema dei rifiuti marini. In questo momento la popolazione delle ostriche del pacifico non è in pericolo, ma sicuramente potrebbero sussistere effetti a lungo termine.


_PatriziaMuzzi@CamBioQuotidianoSocial


Le ostriche sono una fonte di cibo vitale per molti animali. Non sappiamo per esempio quali danni possano causare nell’uomo che le mangia. Un gruppo di ricerca francese diretto dallo scienziato Arnaud Huvet ha pubblicato su PNAS i risultati di un interessante esperimento scientifico. Utilizzando come modello sperimentale le ostriche del Pacifico (Crassostrea gigas), Arnaud e colleghi hanno dimostrato che le microplastiche che si trovano negli Oceani possono incidere in modo negativo sulla loro capacità riproduttiva. Questa riduzione di fertilità è già stata riscontrata anche in altre creature marine come i copepodi e le dafnie. Il biologo marino Richard Thomson dell’Università di Plymouth (UK) ha studiato campioni di sedimenti in 16 differenti postazioni del Mediterraneo, Oceano Indiano e Oceano Atlantico, verificando la presenza di fibre di rayon o poliestere in ogni campione.

Nel 2013 Feltrinelli ha pubblicato un libro del navigatore e ambientalista Charles Moore, dal titolo: L’oceano di plastica.

Moore denunciava l’esistenza di una vera e propria ‘isola’ di plastica fluttuante nell’Oceano Pacifico. Questa massa venne denominata Great Pacific Garbage Patch e già all’epoca aveva le dimensioni del Canada. I rifiuti di plastica gettati nell’ambiente si deteriorano attraverso l’azione dei raggi UV e di processi chimici fino a diventare microplastiche. Moore poneva anche il problema degli effetti delle microplastiche sulla catena alimentare. Ispirandosi al libro di Moore, Daniel Pennac ha tratto nel 2012 una commedia teatrale dal titolo Il sesto continente. La storia di una famiglia che da piccola impresa cresce fino a diventare una grande industria produttrice di oggetti di plastica, quelli che noi tutti utilizziamo quotidianamente. Anche Pennac voleva fare riflettere il pubblico su questa semplice domanda:‘E questo materiale che noi gettiamo, una volta uscito dalle nostre case, dove andrà a finire?’

La produzione di plastica è passata, tra il 1964 e il 2014, da 15 milioni di tonnellate a 311 milioni di tonnellate, venti volte tanto. Come ci spiega Moore, l’inizio di questa crescita vertiginosa non è casuale. Negli anni ’50, la Phillips Petroleum incaricò due dipendenti di capire se i due sottoprodotti della raffinazione del petrolio - etilene e propilene - potessero diventare additivi in grado di migliorare le prestazioni della benzina. Aggiungendo un catalizzatore metallico ai due composti, entrambi formarono un polimero di cristallo: erano nati il polietilene e il polipropilene. Visto che la Phillips Petroleum non sapeva bene cosa farsene, riempì i propri magazzini.

Fu l’invenzione dell’hula-hoop a lanciare il polietilene sul mercato. Dal 1976 la plastica divenne il materiale più utilizzato al mondo.

Verrebbe voglia di citare Hegel: se un fenomeno aumenta quantitativamente cambia radicalmente il paesaggio, c’è una variazione qualitativa. In tal caso la variazione si sta trasformando in qualcosa di enormemente dannoso per il pianeta.

Come singoli cittadini possiamo agire sulle nostre scelte di vita quotidiane e riflettere se certi prodotti che acquistiamo siano più o meno dannosi: per esempio non acquistando cosmetici come le creme esfolianti ricche di perle di plastica. Sembrerebbe una stupidaggine, ma arriva dallo stato della California la proposta di eliminare da tutti i prodotti per la cura personale, come creme e dentifrici, le perle di polietilene e polipropilene e di altri materiali plastici più piccoli di 5 millimetri di diametro a partire dal 2020.

Evitare gli sprechi, riciclare, non gettare rifiuti nell’ambiente, sono gesti che possiamo compiere tutti. Nel frattempo, nel mondo si studiano sistemi per liberare dai rifiuti l’ecosistema marino o per prevenirne l’immissione. In Giappone si sta testando un sistema di bracci galleggianti e frantumatori a energia solare, come si vede nel video.

In Paesi come la Francia si corre ai ripari: il parlamento francese ha votato a favore della messa al bando delle stoviglie di plastica monouso. Un grafico presentato durante il World Economic Forum parla chiaro: dei 78 milioni di tonnellate di plastica prodotte nel 2013, il 72% è finito in rifiuti non riciclati e nell’ambiente. Servono idee, investimenti nella ricerca e nelle nuove tecnologie. O preferiamo vivere in un oceano di plastica?

http://www3.weforum.org/docs/WEF_The_New_Plastics_Economy.pdf

http://www.pnas.org/content/112/38/11899

http://www.green.it/stop-plastica-negli-oceani-si-parte-dal-giappone/

http://www.greenme.it/informarsi/rifiuti-e-riciclaggio/16792-francia-banna-stoviglie-monouso-plastica

http://www.nature.com/news/in-the-name-of-beauty-1.18398

http://www.nature.com/news/microplastics-damage-oyster-fertility-1.19286?WT.mc_id=FBK_NatureNews

http://www.pnas.org/content/early/2016/01/25/1519019113

http://www.nature.com/news/plastic-waste-taints-the-ocean-floors-1.16581