SERAFINO PARISI, biblista
Cambio Quotidiano Social Online
Nella Nota Pastorale sulla ’ndrangheta dal titolo Testimoniare la verità del Vangelo pubblicata il 25 dicembre 2014, la Conferenza Episcopale Calabra ha dato degli orientamenti per affrontare il fenomeno mafioso con la forza dell’annuncio e con l’impegno di contribuire alla costruzione di un contesto umano e sociale culturalmente e moralmente elevato. Questa preoccupazione nasce dalla consapevolezza che la Chiesa ha della sua peculiare missione per la quale è chiamata a leggere le situazioni, a interpretare i segni dei tempi e a servire la storia con la forza “profetica” della Parola che salva. Per tale motivo la Chiesa, anche quando cura le ferite degli uomini, non svolge semplicemente un servizio sociale – intervento nobile quanto indispensabile, ma assai riduttivo se fosse solo questo – giacché ha contemporaneamente un “di più” da testimoniare e indicare nella sua “azione pastorale”. In riferimento alla questione della “lotta alla mafia” è necessario chiarire che “parola profetica”, per sua natura polisemica, nella sua pars construens non contraddice affatto le esigenze immediate della esplicita, e peraltro condivisibile, parola di condanna, la pars destruens. È nel nucleo incandescente della “profezia” che si trova il vero nodo del problema che, tradotto in termini concreti, ci fa chiedere: può la Chiesa escludere il mafioso dall’annuncio del Vangelo? È evidente che l’intera comunità ecclesiale, come del resto ogni singola persona, deve prendere le distanze da tutti i metodi, le manifestazioni, gli atteggiamenti, la mentalità e le altre diavolerie mafiose, deve stigmatizzare tutto questo, ma – al tempo stesso – deve dire ai mafiosi (che di fatto si sono posti in una “struttura di peccato” e al di fuori della comunione con Dio e con la stessa Chiesa) che anche per loro, come per tutti, c’è la possibilità della conversione. Detto grosso modo, qui sta la “differenza” (intesa come peculiarità dei rispettivi ambiti di competenza e come specificità delle relative finalità e della precipua missione) tra l’azione dello Stato e quella della Chiesa. Devo tuttavia confessare che, mentre io stesso dico “lo Stato”, penso quasi esclusivamente alla sua facies repressiva. D’altra parte so che è lo stesso Stato quello che è chiamato a dare ai cittadini, fin dalla loro tenera età, una presenza di sé sotto l’aspetto educativo, culturale, relazionale e sociale. D’altra parte lo Stato deve pure reprimere, ma anche educare o rieducare.
L’azione repressiva, tuttavia, presenta delle criticità forse “ineluttabili”, giacché la repressione, talvolta, lascia alcuni spazi liberi inesorabilmente destinati a essere occupati da altri spregiudicati disposti, per raggiungere lo scopo, a sfoderare tutta la loro potenza mortifera.
Il rischio, allora, è quello di favorire una riproduzione – in un territorio divenuto “terra di nessuno” – del seme infetto, a dispetto dell’intento reale riconducibile alla volontà di eliminare le sottoculture per favorire l’interruzione della riproduzione “genetica” della mafiosità nei posteri.
Nondimeno, anche la rieducazione non sempre riesce a portare i frutti sperati: basti solo pensare che a volte il carcere diventa per alcuni reclusi una “università del crimine”. Allora il processo deve includere contemporaneamente la repressione e la rieducazione, promuovendo un’opera di “ri-fertilizzazione” umana, culturale e sociale della terra, quasi a voler dire – ad esempio – che l’affidamento dei beni confiscati ai mafiosi deve essere considerato come una parte o un momento del progetto di ri-fertilizzazione orientato al riscatto di una collettività – o meglio, di una porzione di essa – da una paura paralizzante e da una mentalità disumana e disumanizzante; in tal caso la ri-fertilizzazione deve essere compresa nei termini di un processo di “ri-umanizzazione”.
Proprio all’interno di questa situazione la Chiesa ha e sente il dovere d’intervenire. A tale proposito va però detto – senza il benché minimo intento assolutorio – che la Chiesa, pur con alcuni limiti sistemici comuni a tutte le grosse “organizzazioni” – siano esse politiche, sociali, militari e, dunque, anche religiose –, deve sentirsi non screditata, ma legittimata (fatta salva la missione che le è propria che non solo l’autorizza, ma la “obbliga”) ad agire per il bene integrale dell’uomo come Istituzione fra le altre Istituzioni.
Si può aggiungere che il contributo “profetico” della Chiesa è anche quello di indicare il rischio del riduzionismo meramente repressivo, unitamente alla segnalazione del bisogno di inquadrare la lotta al fenomeno mafioso come un’azione coordinata e connessa nell’ambito sociale, morale ed educativo contro questo male che inquina l’intera società, giungendo addirittura – come apprendiamo dalla cronaca – a intaccare anche alcuni apparati delle Istituzioni e dello Stato.
Paradossalmente, non basterebbe la sola repressione dell’individuo e della sua singolarità criminale, se non venisse sconfitto materialmente e idealmente quel demone organizzato e destrutturante che produce l’associazione criminale, infetta e malvagia, e che sta alla base delle organizzazioni mafiose.
Secondo la visione della Chiesa, dunque, occorre spostare il focus dal dato meramente quantitativo delle operazioni antimafia – certamente necessarie – a quello qualitativo: è proprio in questo ambito che va promossa una palingenesi sistemica dei contesti umani esistenziali e sociali e delle “ecologie territoriali” in cui ancora permane anacronisticamente il retaggio delinquenziale e deviante del passato che va radicalmente.
Il punto di forza per scardinare questo sistema curandone, al tempo stesso, le ferite da esso prodotto, è quello rigenerativo di tipo culturale.
La Chiesa ha un immenso patrimonio umano, sapienziale, relazionale e sociale che vuole continuare a mettere a disposizione di ogni Istituzione, centrale e di prossimità, sotto forma di “provocazione profetica”. Si tratta di un bagaglio certamente utile a determinare la svolta e la sconfitta definitiva non di un mero crimine, ma di un intero fenomeno che assilla e condiziona da troppo tempo l’intero Paese.
Nel processo educativo la Chiesa ha il preciso “compito dell’orientamento” che non coincide con la condanna o con la denuncia (eppure questi interventi non sono esclusi dalla sua azione), né tantomeno con la repressione (che altri operano) o con il mero ostracismo (che, pur sembrando la via politicamente più corretta, non sempre è quella evangelicamente più appropriata). Con questo non si vuol dire di tollerare il male, anzi si richiede ai Christifideles “laici e non”, che costituiscono la comunità ecclesiale, di essere talmente forti da prendere chiara, inequivocabile posizione contro il male mafioso. Ciò ha per conseguenza una precisa e decisa comprensione del reale contesto di condanna totale del male, in quanto peccato e peccato immane, pur nel tentativo di recupero di chi lo commette, sulla linea del detto di Gesù di “non opporsi al malvagio”, come si legge nella formulazione paradossale e profeticamente provocatoria di Mt 5,39.