Diawara in fuga dal Bologna. Un noir africano nella calda estate del calcio italiano

2 agosto 2016, 16:23 Trasferta Libera

VITO BARRESI
TRASFERTA LIBERA | CN24


Se n’è andato senza resistere un minuto in più. Sordo al fischio delle sirene. Intonato, in varie lingue dal coro antoniano degli ultras della premiata fabbrica rossoblù Bologna Football Club 1909. Persino discolo, non si dirà scapestrato che sarebbe troppo, in tutti i modi un pò dispettosello, maleducato al punto giusto di cottura da far perdere la pazienza, insolentire la maggioranza silenziosa del tifo Balanzone. Cose da app che danno il via libera al talk del bar sport, a conversazioni in dialogico dialetto puntato: “… ma chi si crede di essere… troppi soldi alla sua età…dovrebbe ringraziare la società che gli ha dato una grande occasione… in una famiglia come la nostra chi ti mette la maglia in Galleria Cavour? ... queste cose non dovrebbero accadere… ingrato ti abbiamo dato celebrità e poi sputi nel piatto del maxi food in cui mangi…" Quasi, quasi ci scappa il cafone, il terrone, l’africano, il buuuu che ci sta dietro per tutta questa sua inaccettabile mancanza di rispetto. Ma se le chiacchiere stanno zero a zero e il fatto non punta su un pareggio, ciò che punge vaghezza e di più è che Diawara ha sbattuto la porta in faccia ai gagliardi e redditizi bolognesi canadesi come fosse una torta di panna sullo schermo dei cinofili dandy del primo turno in Cineteca. Tutto, inesorabilmente, per tornarsene a volo nella sua amata Africa, in mezzo alla famiglia allargata e alla parentela reticolare, riti e balli a piedi nudi senza scarpe con tacchetti in fibra di carbonio, tra quella gente del tribale che solo l’inimitabile francofona Genevieve Makaping è riuscita coraggiosamente e brillantemente a insegnare ai suoi studenti nei corsi semestrali di antropologia sociale.



Diawara, calciatore bambino, venuto in Europa, non con un barcone di profughi a mare, ma da una parrocchia cattolica dove l’asso africano si divertiva tra fioretti e calci di rigore, sul cartellino centrocampista di 19 anni nato a Conakry, in Guinea, al suo primo contratto professionale con la locale Syli, è ancora una giovane promessa del calcio italiano? Oppure è un apolide con la pelle nera, fuoriuscito dalla scuderia di un famoso manager di stanza a San Marino, zona franca al limite del fuorigioco, che ha lasciato Donadoni di stucco a far da palo all’equipe, dando un calcio e uno schiaffo al pallone rossoblu?


Perché tutto poi potrebbe darsi per scrivere un'altra storia, un reverse report. Anche che non è proprio così improbabile come raccontano le cronache dei colleghi in spogliatoio. Che non ci sia niente da capire dietro la storia del ventenne Amadou, forse centro campista senza felicità, è ancora tutto da vedere. Tanto che il solito assordante silenzio dei manager globali del Bologna, i pivot delle borse in pelle al mercato delle perle nere, affolla domande alla dogana dei sentimenti. Per non dire a quell’altro arabo fenicio della verità: il noir del calcio estivo con la cresta di Diawara è forse il segno del disagio e dell’insofferenza che gli oriundi africani vivono nel mondo del calcio italiano ed europeo? In gioco potrebbe esserci molto di più di un problema di contratti, cioè la libertà di una persona in fuga che misura anche le nostre regole, i nostri pregiudizi. Una storia di calcio che si ribella al pensiero unico, alle regole uniformanti e che rivendica la propria individualità.


Sarà poi vero che bisogna stare in silenzio e non peccare d’ingratitudine quando si è assegnati al ruolo e alla maglia di vivere ai margini di un deserto con la disinvoltura di un principe in esilio?


Ci sono grattacieli di soldi sperperati, in questi mesi di pre inizio dell'annata sportiva, per acquistare atleti che nessuno vuole ma tra questi sicuramente non c’è Diawara, una delle brillanti scoperte di Pantaleo Corvino, il ds che ha divorziato pochi mesi fa col Bologna, lo stesso che ne ha riconosciuto la grande capacità di recupero palla, il suo spiccato senso di lettura del gioco e della situazione, da cui ricava sempre un ottimo posizionamento che gli permette di intercettare la sfera nei momenti più efficaci per spezzare l’offensiva avversaria. Dieci partite con il Bologna sono valse a evidenziare le sue doti d’accelerazione con rapide puntate in avanti verso la porta, smistando passaggi fulminei quanto semplici. Nel frattempo è salito in quotazione l’interesse del Chelsea, l’attenzione del Manchester City, lo sguardo attento degli osservatori del Tottenham e della Juventus e a sorpresa la diplomazia commerciale della Fiorentina.


Alla fine dopo tanto profluvio di perbenismo piccolo borghese declamato dalla platea del connubio ceto medio e lumpenproletriat del tifo felsineo, ai piani alti dove siede sua maestà Joey Saputo, emigrato della sponda del lusso e non profugo per necessità economica, qualcuno ha fatto ventilare la parola disciplinare per chi poi realmente non ha raggiunto il senso della squadra nel ritiro estivo di Castelrotto. L'insieme è condito a piatti pronti con accorate considerazioni paternalistiche tipo “che il Bologna ti avrebbe tenuto volentieri, ma date le circostanze, meglio venderti e mandarti via (soprattutto se si ha già il sostituto di nome Adam Nagy),che se Saputo volesse darti una lezione non ti venderebbe ma ti farebbe fare una lunga panchina/tribuna/fuori rosa.”