Funerale ad Amatrice prima vietato dal prefetto e poi riconfermato

Vito Barresi
Cambio Quotidiano Social


Come se non fossero già bastate le istantanee degli abbronzantissimi volti dei massimi rappresentati delle istituzioni, immagine che cozzava in contropiano con il pallore della morte e del dolore del popolo. E poi quel segno della croce così perfettamente coordinato come un saluto d’ordinanza che faceva rassegna castale durante la prima liturgia funebre delle vittime innocenti dei tanti ritardi e delle troppe omissioni di uno Stato storicamente inefficiente e legalmente superficiale ecco che arriva l’eco straziante dell’umana sofferenza scoppiata platealmente nella tendopoli di Amatrice, appena appresa la notizia della decisione della Prefettura di celebrare i funerali nell'aeroporto di Rieti e non, come era stato deciso in un primo momento, nel comune terremotato. "Noi a Rieti non ci veniamo, ridateci i nostri morti", dicono gli sfollati. "Deve venire Rieti da noi, non andare noi da loro", dice un anziano signore ai funzionari della Protezione Civile. "Una decisione dolorosa anche per noi", hanno detto alla gente. "Io a Rieti non vado - aggiunge Don Fabio - celebrerò qui, a Rieti non dobbiamo andare". Noi non conosciamo le ragioni che hanno spinto il Prefetto della Provincia di Rieti, Valter Crudo, a stabilire tali forme e modalità, descritte in un’apposita disposizione amministrativa da lui firmata. Li rispettiamo aprioristicamente, a prescindere come banalmente si direbbe. Ma detto questo, occorre anche prendere atto che tra lo Stato, il Governo, la cittadinanza e il popolo oggi si sta perimetrando, forse mai come nel passato, una distanza impressionante, uno iato che segna sul terreno fratture e divaricazioni culturali profonde, una vera e propria voragine tra il consenso richiesto dalla politica del governo che non c’è più e il sentire comune e condiviso delle popolazioni colpite dalla tragedia del terremoto dei ritardi e delle inefficienze di Stato.


Quel che la storia nazionale, e non solo, ci insegna e lancia al futuro in quanto monito, è che allorquando la voce del popolo si leva per tutelare i propri usi e le proprie consuetudini, quell’insieme di ius e diritto popolare, spesso in conflitto con le norme del diritto egemone, occorre fare molta attenzione alle latenze e al desiderio inespresso che cova sotterraneo.



E di seguito sviluppare più attente letture della situazione, di carichi e bisogni psichici delle popolazioni straziate e vessate, di chi in questo momento sofferente per disparità e svantaggi soggettivi e oggettivi, ha un altro e più accentuato grado di sensibilità e reazione alle scelte e alle decisioni del potere pubblico, governativo e centralista.

Mai come in quest’estate così infuocata e tragica, in cui l’immagine italiana è caduta nell’entropia della catastrofe, ogni facile richiamo al senso della comunità istituzionale rischia di suonare non solo stonato quanto addirittura, come avrebbe detto Carlo Marx, espressione di una falsa coscienza e di una ideologia inaccettabile.

Se, come è possibile, siamo di fronte alla radicale organicità del dolore provocato da un sisma che non è certo figlio di nessuno, bensì da una catastrofe dal prevedibile e misurabile impatto devastante, un evento che non è nemmeno caduto sui tetti delle case ignare, come un flagello di superiori divinità ctonie, un disastro civile che è l’algoritmo, il prodotto algebrico dalle omesse prevenzioni pubbliche e private in tema di tutela del territorio, vincoli urbanistici e scelte estetiche e monumentali delle varie sovrintendenze dei Beni Culturali, allora non si può avere paura del dissenso e del dolore che spezza e che divide.

Il dolore scriveva Heidegger è la sconnessura dello strappo. Su questa soglia dell’addio che regge il framezzo tra i salvati e i sommersi, i vivi e i morti, ognuno è ancor più libero per naturale diritto, proprio e collettivo, di esprimere la verità che altri la politica, i media, i giornalisti, le agenzie di comunicazione istituzionali, i bollettini di regime e le disposizioni delle Prefetture, mai profferiranno in pubblico, se non a rischio di apparire bugiardi, mendaci, ipocriti, posticci e artefatti.


Dal grido al pianto nessuno dei colpiti può essere guidato o manipolato dalle istruzioni per l’uso delle ordinanze prefettizie e del cerimoniale di stato. Nello scenario del terribile tremuoto che ha sconquassato la memoria collettiva, i segni più antichi di meravigliose piccole comunità del centro Italia, cucite alla terra e ai monti dell’Appennino come un delicatissimo ricamo trapuntato sul fragile tessuto dell’organza, l’esperienza del pianto e del rito funebre si propone come qualcosa di sacro e intangibile, un anello di congiunzione tra il senso arcaico ed endogamico del dolore, in quanto presentimento della sofferenza dei giorni futuri, lo stesso che sa tradurre il grido in un linguaggio, il dolore in una visione razionale, articolandosi in lamento, preghiera, auspicio.


Tanto più risonanti e sacri perché espressi nel rito che si svolge nel campo degli orfani, cioè dentro il cosmo familiare dei propri luoghi e non in altri senza anima né riferimenti. Altrimenti a cosa servono i richiami ai luoghi e alla memoria che pur non si sono risparmiati nell’incontro a pranzo tra i due Renzi ? L’uno di nome e l’altro di cognome, il buon Matteo Renzi e il grande architetto Piano.


THE FUNERAL OF AMATRICI PROHIBITED BY THE GOVERNOR - As if they had not already been enough snapshots of abbronzantissimi faces of the greatest representatives of the institutions, an image that clashed in counterplan with the pallor of death and the pain of the people. And then the sign of the cross so perfectly coordinated as an ordinance greeting that was reviewed caste during the first funeral liturgy of the innocent victims of the many delays and too many omissions of a historically inefficient State and legally surface here comes the echo of the heartrending 'human suffering erupted spectacularly in the tent city of Amatrice, upon hearing the news of the decision of the Prefecture of celebrating funerals in the airport of Rieti and not, as had been decided at first, in the municipality terremotato. "We do not come in Rieti, Give us back our dead," they say the displaced. "Rieti has to come from us, we do not go from them," says an old man to officials of Civil Protection. "A painful decision for us," they told people. "I'm not going to Rieti - adds Don Fabio - I will celebrate here in Rieti we should not go." We do not know the reasons that led the Prefect of the Province of Rieti, Valter Raw, to establish such forms and methods, described in a separate administrative arrangement signed by him. We respect them a priori, no matter how trivial it seems. But having said that, we must also take note that between the state, the government, the citizens and the people today is perimetrando, perhaps as never before in the past, striking distance, a hiatus that marks on the ground fractures and deep cultural divergences, a real and its chasm between the consent required by government policy that no longer exists and the common feeling and shared communities affected by the tragedy of the earthquake of the delays and inefficiencies of state. (Vito Barresi Daily Social Change)