Tano Passami l’Olio tra il Naviglio Grande e i treni di Porta Genova

30 dicembre 2016, 11:39 100inWeb | di Vito Barresi

VITO BARRESI
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Una sorta di Magritte della cucina milanese, un’artista dalle nuove soluzioni gastronomiche. Da ‘Tano Passami l’Olio’ sai che vai in uno di quei posti che non passano inosservati tra il Naviglio Grande e il centro nevralgico della circolazione ferroviaria metropolitana di Porta Genova. Un angolo della Milano che s’irradia nel territorio dove anche un uovo sodo, per dirla diretta, lo gusti e lo mangi molto, ma molto cerimoniosamente. Anzi un ‘uovo di cristallo ripieno di morbido di albume, grana padana e patata, con il suo tuorlo su riso nero, oro e tartufo bianco’. Qui, la cucina per Tano non è più un luogo pesante, bensì una sorta di laboratorio di piatti algidi, perfetti, dipinti con leggerezza, piatti che emanano una luce nitida, una brezza aromatica olimpica. Sempre mettendo a vista, anche quando l'utensileria della cucina è andata cosmonauticamente più avanti, la creatività interpretata in chiave tecnologica, proprio perché quest’ultima “è essenzialmente un dono di natura, mentre la tecnica invece nasce da una scelta consapevole, accompagnata dallo studio, dalla ricerca e da tanto impegno”. Se è vero che nuove tecnologie e nuovi materiali s’impongono, allora ci sta pure che tutto questo semplifica e accelera il gusto e valorizza il retrogusto, non a vantaggio di un’effimera occasione ma di un’unica sensazione totale. Così nascono i suoi ‘chef-d’ouvre’ fatalizzati da una densità che al palato è assolutamente personalizzata, come per il “raviolo trasparente di acqua di whisky con mousse di corallo, tartare di cappesante e crema di pomodoro”, raccontati in ristorante e narrati nel libro ‘Passione Extravergine’, Mondadori.


Lui è uno di quei personaggi cresciuto nella sempre intrigante, misteriosa e decadente Milano industriale ed estremista degli anni 70. Vissuto a ‘ random experience’ in quella piccola grande metropoli del miracolo italiano, la stessa in cui, poi con l'avvento dell'era dell'euro, non ha avuto alcuna remora a ritrovare ed essere se stesso nella brughiera di periferia, fino in fondo, elegantemente folk, mediterraneo e meneghino, portando a nuova misura relazionale non solo il luogo, quel suo ristorante così apparentemente appartato in un ritaglio urbano minimale, al piano terra di un angolo popolare e condominiale, quanto e soprattutto il suo patrimonio, il ‘sapere aude’ della sua cucina, un pò kantiana perché fortemente ragionata nelle sue scelte di qualità organolettica, capace com'è di mettere in tavola eleganza e saggezza, lentezza della tradizione alimentare e veloce innovazione del cibo (“la cucina è una materia in evoluzione, verso un miglioramento costante, non può rimanere ferma la passato in nome di un rispetto acritico e devozionale verso la tradizione”), combinando in un’atmosfera di calda pressione umana, il sentimento della propria casa e l'antica abitudine dell'accoglienza, il saper fare delle donne di famiglia, prima la mamma di Tano, come da dedica in ouverture del suo racconto di vita, Giuditta Simonato che ancora ripete in memoria di voce popolare, ‘Belin, Tano, vieni con me che ti porto a prendere l’olio…” .

A due passi di strada dal famoso ricordo del bar del Giambellino, quasi ascolti, mista tra le canzoni di quegli anni, una nenia di piacere e nostalgia da cui rinascono i piatti che hanno nutrito l’infanzia di Tanino e che nel corso di tutta una vita di passioni culinarie si sono poi consolidate nella formazione professionale, oggi autovalutata, in un “per me, essere chef significa, essenzialmente, invitare gli ospiti a unirsi al mio viaggio, avere l’opportunità di fare loro scoprire il mio mondo, attraverso quello che propongo”.

Venendo da questa scuola classica, Tano ha imparato ad apprendere che la cucina all’inizio si fa sempre con un niente, altro che non sia il fuoco, l’acqua, il sale, l’olio maneggiati e manipolati con gli strumenti d'un tempo e quelli attuali, su un banco di lavoro minuzioso, su cui giocare l’arte divinatoria con gli elementi della buona terra.

Da Tano, ogni sera, è tutta un’altra storia. Non si tratta di farsi consegnare una pizza da un drone a domicilio. Tano è una specie di San Francesco d’Assisi che distilla l’oro della cucina italiana in olio extravergine, una metafora di civiltà materiale e di equilibrate corrispondenze sensitive, astrologicamente gettata nel cosmo infinito delle incertezze dei nostri tempi.