LA FINE DI FINI. Il carnevale triste di un padre padrone della Seconda Repubblica


Vito Barresi
Cambio Quotidiano Social



Che bello il futuro senza prove. Fini presentò a Lamezia il suo ultimo libro 'L’Italia che vorrei'. Altri tempi. Oggi le cose stanno altrimenti, posto che l'ex statista pregresso, l'ex Fiamma Tricolore Nazione Patria Famiglia Bossi Almirante Berlusconi Destino Plebiscito (sarebbero le sue parole chiave), l'ex nipotino passato dalla nostalgia di Salò alla comodità dei sontuosi salotti del potere, sta di fronte al più plebeo dilemma del Co.Co.Co. Coglione Comparuccio o Corrotto? Quando lo intervistai per una rete televisiva regionale, in quella che era stata la storica roccaforte del Msi in Corso Mazzini, appena sopra la vecchia Upim a Catanzaro, divenuta poi la sede di Alleanza Nazionale, feudo del sindacalista federalissimo Michele Traversa, passato dalla camicia nera ai più soffusi abiti azzurrini di marca Berlusconi, la stessa da dove qualcuno lanciò la bomba che uccise il povero socialista Giuseppe Malacaria, lui mi squadró da sotto a sopra, passandomi al rapido setaccio della sua spessa montatura ideologica. E per via di quelle calzature Clark Desert Boot si fece un rapido conto dei pochi minuti che mi sarebbero spettati. 'Su sbrigiamoci...' ammonì seccato, battendo le due mani su una sedia. Per poi parlare per quasi un ora, contento della domanda su Israele, ammiccante a suggerirmi cosa ne pensassero gli altri di Gasparri. Tutto mentre in fondo alla stanza, silenziosamente seduto a una scrivania, il noto editorialista Aldo Cazzullo appuntava a tratti e ritratti la giornata in Calabria, al seguito del Grand Tour elettorale, del vicepresidente del Consiglio, on.Gianfranco Fini.


Poi le scene cambiano, il riversamento del potere spiazza sia la destra estrema che il centro destra moderato. E in stato di quiescenza politica, un'altra di quelle solite riserve della Repubblica, posteggiato in una zona ibrida dove finisci con lo stare al palo, aspettando che passi un tram del desiderio o qualche nuova ondata, si dedicava anche lui a scrivere memorie e analisi, pur se non sempre rispondeva ai giornalisti, se non quelli che già conosceva, tipo gente di una Rai asservita dalla famigerata e facinorosa legge del Cavaliere. E talvolta si piccava lezioso di non dar retta ai cani randagi, quei giornalisti 'punkabestia' come io sono e fui, soltanto perchè schifava, schivava, disprezzava il loro sessantottismo, quattro miliardi all'Msi le bombe fasciste si pagano così', ma guarda un pò, dicendo 'alterio', non capisco la domanda.

Eppure in tempi di avanzante antipolitica, come di una presenza che bastava a suscitare, nella più ampia opinione pubblica calabrese, quanti ricordi, cimeli, album, antiquarium, del mitico passato. Che corte di dame, signore, signorotti, notabilotti silani e rurali, ex mazzieri di gioventù, ordinovisti di ore lontate, latifondisti di smisurato terraggio, trasformati in nuovi rentier dei fondi e dei soldi agricoli comunitari, banchieri, uomini di legge e imprenditori delle piane catanzaresi, bei ragazzi eudermici e improfumatissimi di bergamotto del capoluogo reggino... nostalgia e sogno di una destra calabrese tozza e potente, guardinga e segreta come una loggia, mai indomata, mai distrutta, pronta a ritrovarsi da qui a Malta, senza passare nemmeno per Gioia Tauro.

E soprattutto c'era già in Fini l’enorme rimpianto del suo essenziale stato di non essere. Sul palcoscenico del teatro Grandinetti, dove così avevano fatto tutti i politici, su un piccolo, buffo, un pò ridicolo e molto posticcio, trono da salotto, si trovò quel poco, anche tutto, che si doveva e si faceva finta di non sapere di questo personaggio della politica italiana, in odor di dubbio anche al capezzale dell'uomo della razza pura. Cioè l’ombra e lo stampo di un Gianfranco Fini che fu, delfino e successore di Giorgio Almirante, il profeta dell’Elefantino con Mario Segni e referendari, il Fini padre della legge antimmigrazione che alla storia passerà appunto come legge Bossi-Fini, il vicepresidente all’epoca del G8 e della Diaz a Genova. Ma sopratutto il Fini starring partner del Cavaliere, folgorato sulla via di Damasco dal suo ammaliante richiamo, insediato sugli scranni più alti della corte di Re Silvio Berlusconi, poi congiurato ed estromesso dal paradiso berlusconiano.

Nessuno scriva ai colonnelli? Beh, non solo perchè vedemmo Gianfranco Fini davanti a una platea a luci spente. Il punto è che dopo il rinvio a giudizio per le case Tulliani, sono finite le maschere, le troppe facce di un politico che, veniva raccontato come fosse un'entità in costante evoluzione, fluida, a seconda delle opportunità individuate, un politico italiano perennemente pronto a cavalcare il mugugno, l'astio, il malessere del regime, e poi la beatissima onda romana in diretta su Canale 5. Ora, infine, che certa destra è definitivamente finita al suo Santo Sepolcro, anche lui si è arenato e in malo modo.

Dicevano di Gianfranco Fini che la sua mitologia, come il suo stile, era in perpetua metamorfosi. Dal neofascismo al postgollismo e allo chiracchismo non ha conosciuto interruzioni. Ma anche queste furono non in ultimo soltanto parole. Perchè quel che in fondo conta più del prima è la rettifica finale sempre concessa in esclusiva all'amico giornalista Cazzullo che recita come cartiglio l'eterno ritorno alle pure origini infantili: 'Fascismo come male assoluto? Non fu quello che dissi. In Israele io non definii il fascismo male assoluto. Lo dissi a proposito della persecuzione degli ebrei'. Parole ambigue.. che pesano ancora da prima e dopo il troppo dimentico 1938.