Toscanini, lo schiaffo di Longanesi e il cagnetto irriverente che fa pipì davanti alla sua storia

Vito Barresi
Cambio Quotidiano Social


La ‘limousine’ del Maestro Arturo Toscanini giunse proprio davanti alla porta di servizio del teatro Comunale di Bologna alle ore 21,50 del 14 maggio 1931. Lo stesso luogo, Largo Respighi, dove adesso anche un simpatico cagnetto, ignaro e irriverente, non si fa schema d’etichetta nel rilasciare il liquido mentre il suo tutore lo tiene a leggero guinzaglio, leggendo assorto le notizie di cronaca della città felsinea. All’epoca la scena fu certamente molto più agitata e turbolenta di quella che vediamo in questa polaroid della vita quotidiana davanti ad un emblema in targa della microstoria nazionale. Anzi, a seguire il racconto di Luciano Bergonzini detto Stampa, antifascista, partigiano e per decenni riverito accademico e statistico dell’Alma Mater Studiorum, appassionato storico della Resistenza e autore, tra altre monografie, del bel racconto evenemenziale, 'Lo schiaffo a Toscanini', quella sera c’era una discreta folla di ammiratori e curiosi che aspettavano trepidanti l’arrivo del grande direttore. Giunto nel capoluogo emiliano con un certo ritardo per lui inusuale, secondo le rigide abitudini del suo protocollo artistico. In quello stesso posto, che sta ancora adesso di traverso, ieri come oggi di lato, quasi a gomito, dopo lo slargo di Piazza Verdi, appartato e sghembo rispetto a via Zamboni rutilante di mezzi e movimento, girato rispetto all’ingresso principale, al foyer ampio e solare che accoglie la platea e i loggionisti, tagliato com'è nei percorsi urbani medievali, scende in una strada che stringe a imbuto per riversarsi a ruscello, nel dedalo delle viuzze bolognesi. Poco più in là, sul lato destro, si trovarono, torvi e minacciosi, all’incirca una ventina di fascisti, esposti in mostra di camicia nera, alcuni spavaldi pavoni del proprio gerarchico distintivo, squadristi ben ispirati da menti più alte ed eccellenti. Stavano imbronciati ad aspettar di menar fendenti in manganello, corvi neri in agguato, magari contro l’illustre ospite in cartellone, mentre d’intorno si spandeva l’aria di una serata mite. Persino pittoresca, artistica ma non futurista, quella in cui il musicista apparve ai presenti già in abito da scena, mentre indugiava affettuosi saluti ai cari amici bolognesi, e il suo buon autista, apriva il portello dell’auto alla signora Carla, alla figlia Wanda. Appena un lieve gesto di sollecito e poi s’incamminò tranquillamente, con passo rapido, verso l’ingresso d’ufficio che porta dritto al boccascena. Quando, bloccato dagli eccitati facinorosi, qualcuno apostrofò con insolenza il maestro chiedendogli perché negasse di suonare Giovinezza. E alla sua risposta secca e decisa, ‘no, niente inni”, cominciarono gli insulti e il tumulto contro ‘un maestrucolo adatto per le vecchie zitelle inglesi’.


Chi tirò lo schiaffo a Toscanini? Fu vile mano squadrista oppure guanto di raffinata fattura intellettuale, giornalistica e politica? Il ceffone che colpì il volto del direttore, secondo Indro Montanelli e Marcello Staglieno, fu dato niente poco di meno che, in faccia e con violenza, da Leo Longanesi.

La persona che schiaffeggiò Toscanini non era Longanesi, scriverà in tempi più recenti Sergio Romano, forse per riverginizzare un giornalista che 'certamente vero, nei giorni seguenti, scrisse contro il direttore d’orchestra un articolo pieno di rozzi insulti e sembrò rivendicare la paternità del gesto'.

Una difesa d'ufficio e di categoria che non cancella l'alone di vergogna nè le evidenti colpe soggettive del Longanesi, sempre lesto a smanettare sulle sue stesse ambiguità con il potere fascista e post fascista.

Per le strade del centro, tra Piazza Maggiore e via Rizzoli, ci fu parapiglia. I fascisti in corteo cantando a squarciagola Giovinezza, entrarono in urto nei pressi di Via Indipendenza, all’altezza del Caffè San Pietro, con i sostenitori di Toscanini. L’indegna gazzarra si spostò davanti all’Hotel Brun, all’incrocio di via Ugo Bassi e piazza Malpighi, placandosi soltanto dopo mezzanotte, quando il federale Ghinelli, sentito Arpinati, intese convincere il musicista a lasciare la città.

Quella notte al Brum, a pochi passi dalla statua del massone Bassi, fu travagliata e tesa. Toscanini e la sua famiglia avrebbero lasciato presto il Paese, ormai caduto nelle mani della canea violenta, mussoliniana e totalitarista.