Pino Bertelli il fotografo con il basco tra le Genti di Calabria

Vito Barresi
Cambio Quotidiano Social


Diceva di lui don Andrea Gallo, un prete angelicamente anarchico, rivolgendosi a Pino Bertelli, ‘chi meglio di te, con la tua coerenza e la tua testimonianza fotografica può far recuperare il grido degli esclusi e delle escluse? Riesci ad illustrare la realtà in due dimensioni, apparentemente opposte, ma in definitiva convergenti: è un grido di dolore, d’indignazione, di disperazione, ma anche, nello stesso tempo, un appello alla speranza ed alla mobilitazione’. Toscano, fotografo senza confini,da molti mesi intensamente impegnato alla chiusura del suo più recente progetto di comunicazione e inchiesta, la realizzazione di un Atlante Umano dei calabresi fatto di volti, fisicità, posture intitolato ‘Genti di Calabria’, il lavoro che presto andrà in pubblicazione è un minuzioso e certosino contesto fotografico, composto da un ensemble di oltre 200 immagini di persone che vivono in questa regione del Sud. Una vera e propria guida, la mappatura iconografica di una geografia sociale che ci racconta dal vivo e da dentro la vita quotidiana di una terra universale e insieme molto particolare.


L’obiettivo di Pino Berteli è quello di mostrare, illuminare un tipico tracciato della storia italiana, un viaggio di Erodoto sulle piste di un mutamento i cui esiti apparvero scontati ma che sono tutt'ora sconosciuti. Berteli apre il diaframma sulla Calabria forse perché ciò che in questa regione sta accadendo ha un carattere emblematico, paradigmatico. E cioè quello di una società locale, di un area geografica regionale ben connotata e chiusa da confini montanti e marittimi, che non si è mai perduta né tanto meno è naufragata nel mare della modernità forzata.

Straordinarie sono state le resistenze a ogni tentativo di spianare e piallare mentalità e ambienti, assolutamente originale il tragitto di costante e sotterranea rigenerazione di un ‘consorzio’ umano che più degli altri nello stesso Mezzogiorno, ha reagito ai colpi di maglio durissimi dell’omologazione culturale, scansando l’olocausto sociologico della civiltà contadina e tradizionale, ben paventato da un panico Pasolini, con varie risposte e soluzioni, compresa quella inconfessabile, deprecabile, infernale come dicevano certi grandi reporter del nord, ma più appariscente alla cronaca, la più aberrante fenomenologia destruenda, la crudele ed eclatante protervia e violenza della criminalità mafiosa e della ‘ndrangheta.

L’ambizione e la sfida di questo Atlante che Bertelli, insieme all’ideatore dell’iniziativa culturale e cinematografica, il cineasta e regista Francesco Mazza, ha in corso d’opera è quella di raccogliere i pezzi sparsi di una geografia devastata e spappolata da ripetuti e ciclopici cicli dell’emigrazione, e poi dalla invasione subdola e inquietante della ‘ndrangheta, faccia di una subcultura distorta e dannata, e per questo non priva di oscure valenze esoteriche e di fin qui sconosciuti retaggi del passato, dal sottosviluppo, dal grande tradimento storico di certa politica progressista e di sinistra che ha svenduto la questione meridionale sull’altare della ragione di stato per il suo ingresso nella stanza del potere e dei bottoni.

Il quid di questo progetto è inciso nelle parole di Francesco Mazza, alle prese con il montaggio di un materiale e di un repertorio divenuto di giorno in giorno sempre più ingente: ‘a noi non interessa nulla della fotografia corrente, civile, impegnata, democratica, mercantile, amatoriale ecc., ciò che importa per noi è lavorare sull'immaginario dal vero, raccontare l'uomo o la donna non per quello che si vedono ma per quello che sono e come stanno al mondo. Qualsiasi persona (qualsiasi diversità) ha diritto alla bellezza (anche perduta), ciò che importa è respingere dappertutto l'infelicità. E il diritto alla bellezza, quindi alla giustizia, non tiene conto né di un necessario successo né di un eventuale consenso... per la libertà, come per l'amore, non ci sono catene! La libertà (non solo in fotografia ma anche nella vita) non si concede, ci si prende! La bellezza è l'ultima fermata prima del paradiso in terra! La bellezza seppellirà tutti, ma con grazia. Con queste idee in testa (e altri canti di fraternità radicale) abbiamo realizzato GENTI DI CALABRIA.”

Lo scopo resta quello di ricomporre un telaio integrale di motivazioni e il suo quadro delle contaminazioni, legando i punti e gli incroci umani nel volto dei tanti personaggi incontrati sulla strada, tra ieri e oggi, per concepire e cristallizzare nell’immagine fotografica e nella superficie filmica, un racconto inedito delle novità (che detto così e d’incanto sembra quasi un’affermazione antitetica, un controsenso irriguardoso rispetto a quelle istituzioni tutte d’un pezzo che reclamano una loro sedicente legalità molto autoreferenziale), che sono andate emergendo in questi anni di prima e secolare riglobalizzazione del Mediterraneo e delle sue regioni costiere, tra cui appunto la Calabria.

Calabria ormai risibile, ganga di una miniera senza pepite d’oro solo apparentemente (ma le grandi lobbie e le multinazionali dell’energia, gas petrolio vento foreste biomasse ecc. sanno bene che i giacimenti minerari sono immensi tra Scilla e Cariddi, il Golfo di Taranto e Giganti della Sila), regione che, per ironia della sorte, combinando in una confusione di genere il passato e il futuro, il fato antico con quello moderno, alla fine appare come una sorta di ‘terra dei cedri’, una cerniera di comunicazione fra Europa, Nord Africa e Oriente, un piattaforma di una grande importanza per la formazione del pensiero diffuso nelle nuove generazioni, non un margine brullo e desolato, un non-luogo ma ancora e a forti tinte, un ‘luogo’ di spazio/tempo, agibile in termini di dignità e libertà all’interno di un Mediterraneo più vasto, frastagliato e convulso, ricattato dalle ambizioni delle superpotenze e di quelle emergenti, ripetutamente caduto nel baratro della guerre e dei conflitti religiosi.

E cioè un territorio localista, che pure sa proporsi e s’inserisce in una sorta di cartografia delle qualità umane ed ecologiche tra Asia, Africa ed Europa, non in quanto strutturato secondo i moduli industriali del turismo, quanto invece per una logica dell’accoglienza che non è quella della città separata ma della regione intera, non è etnia e nemmeno comunità ma piccolo popolo sagomato sullo stadere dell’esodo e del ritorno, del viaggio e dell’oikos. In sintesi, sempre molto da fare e sempre molto parziale, una comunità di valori condivisi nel respiro di tutti, un ambito di relazionalità e confidenze, pronto ad ‘aprirsi’ al dialogo presago ma non ignaro del mondo altro in cui vive e si circonda.

Bertelli ha fotografato, intervistato, fatto inchiesta non in una logica di potenza bensì in quella liberatoria, rifiutando l’asservimento al facile stereotipo, senza andare alla ricerca di soluzioni ad effetto fotografico, quanto inseguendo con lo sguardo meridiano lo scatto che si congiunge con la realtà dell’istante, per cui ogni sua foto è sempre un ritratto sociale, un legame umano, l’attimo che manifesta la sub stantia e non solo l’effimero, la superficie, l’appartenenza.

Il Bertelli che ti inquadra mai ignora la realtà complessa dello sfondo, le sfumature contraddittorie dentro cui ci muoviamo, riaffermando con tale stile, il concetto della fotografia sociale militante, l’indole di un fotografo d’avanguardia costantemente impegnato in un denso e costante lavoro di base.

Alla fine il ritratto del calabrese che si stampa è quello in cui si legge che non tutti i calabresi sono veri calabresi. Perché calabrese è chi ha un’effettiva coscienza di essere parte di una classe umana, ben distinta dai cerchi criminogeni di ‘ndrangheta, mafia politica, varie sette e camarille del micropotere locale, quanto invece chi ha in sé, per intelligenza positiva e razionale sapienza, l’indole e la prassi di una cultura che libera e che include, chi comprende il significato di appartenere a una ‘regione dello spirito’.

Bertelli, fotografo con il basco ha posto a tutti domande talvolta aperte e altre chiuse nelle pause del silenzio pitagorico. Camminando adagio in mezzo ai campi non so se ha trovato le famose lucciole. Lui però con la sua lanterna sè di certo imbattuto in campi di fragole bellissimi, angoli con teneri boccioli di luce viola, volti femminili di bellezza primaverile, facce maschili nelle intense penombre di notti dipinte. E in una viuzza di un paese allegro, a ritrovar l’essenza di un mondo che ha più che mai bisogno di amicizia e affetti.