È uno dei pomeriggi più caldi degli ultimi anni e la Sala Stabat Mater dell’Archiginnasio di Bologna è piena di gente che aspetta solo di sentire cosa racconterà la minuta Arundhati Roy del suo secondo romanzo intitolato Il ministero della suprema felicità (Guanda, traduzione di Federica Oddera, pag 496, euro 20). Appena varca la soglia partono gli applausi, lei ringrazia con le mani giunte e sorride con aria serena. Capelli grigi e un taglio più sbarazzino, il suo sguardo è ancora quello dei tempi de Il dio delle piccole cose, successo editoriale mondiale che la catapultò dal Kerala alla ribalta internazionale.
Patrizia Muzzi | Cambio Quotidiano Social
Mi colpisce al cuore e fa centro. Con il suo modo garbato di muovere le mani, la sua voce morbida, vestita di giallo, sembra un piccolo fiore su un prato di trifogli. Il ruolo dello scrittore per lei è molto chiaro: deve essere pericoloso. Lo scopo di intrattenere arriva in un secondo momento. È vietato addomesticare il proprio pensiero: lo scrittore, il poeta, lo sceneggiatore, non devono farlo.
Racconta che noi occidentali abbiamo una visione parziale o errata dell’India, probabilmente ha contribuito in passato un film come Gandhi di Richard Attenborough. L’India moderna non è più quella del libro Passaggio in India di Forster, afferma il suo interlocutore. L’India – prosegue Roy - è un Paese dove l’odio verso i musulmani, le multinazionali che sfruttano la manodopera e schiavizzano migliaia di persone, le caste che sono ancora ben presenti, contribuiscono a ingigantire le differenze tra classi sociali.
Racconta di come lei stessa, in India, rischi la vita durante le presentazioni dei suoi libri poiché tratta temi non graditi al potere. Un notissimo attore di Bollywood, che è stato anche membro del parlamento, ha dichiarato pubblicamente che “…una come lei avrebbero dovuto legarla davanti al cofano di un auto e usarla come scudo umano in battaglia. Un occidentale che passeggiasse per le strade dell'India non sarebbe in grado di capire la casta di appartenenza delle singole persone, e probabilmente nemmeno l'esistenza delle caste stesse. – prosegue Roy - Ogni indiano, invece, come un codice a barre ambulante porta su di sé tutti i segni caratteristici della propria casta di appartenenza. Le caste sono di fatto istituzionalizzate: i ricchi non sono interessati a parlare dei problemi di quelle inferiori e quindi le vite del popolo scompaiono dalla Storia.”
“Abbiamo adottato il neoliberismo a spese di milioni di persone che ora vivono oppresse. Assistiamo impotenti a trecentomila suicidi di contadini nelle campagne e ci chiediamo se alcune storie siano da raccontare? I personaggi del mio libro sono attraversati da un confine, s’interrogano sulla propria identità. Siamo tutti in una fase di transizione. Pensiamo alle elezioni come espressione di democrazia: ma è davvero così? I grandi industriali indiani controllano i mezzi d’informazione. Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss, l’Associazione dei volontari nazionali, un’organizzazione paramilitare creata sul modello delle camicie nere del fascismo italiano), lancia un messaggio di forte identità indù sperando di cacciare gli indiani musulmani. E ne sono prova i cimiteri: gli indù cremano i propri morti mentre gli indiani musulmani li seppelliscono. Quelli dell’Rss vogliono eliminare i cimiteri. Vi ricorda qualcosa?”.
Mentre racconta queste cose, è disarmante. Riesce a restare in equilibrio, pacata. “Se i poveri massacrano i musulmani, io non sto con i poveri” - intendendo che non si schiera con una casta in particolare – “Sento di dover prendere posizione”.
Ha ragione lei: la vita reale e la fiction si confondono. “In questa fase storica non riusciamo più a tracciarne i confini”.Ha scritto il suo primo romanzo senza anticipi, senza alcun tipo di sostegno, così com’è accaduto per il suo secondo romanzo che ha iniziato a scrivere dieci anni fa. Nel frattempo ha pubblicato alcuni saggi tradotti anche in italiano. “Scrivere, per me è come respirare. Non è coraggio: è spirito di conservazione”.
Una persona davvero speciale, un incontro che non dimenticheremo.
Foto: Germano Bonaveri