Le armi chimiche che distrussero il futuro di Crotone. Romanzo “choc” di Salvatore Parise

Il lamento hammond di un viaggio di ritorno lampo dalla metropoli emiliana alle nitide solitudini meridiane ripercorrendo a frammenti e singhiozzi pagine scritte sul fronte sud di un disastro ecologico industriale. Il Rubicone attraversato da Salvatore Parise, giovanissimo e singolare scrittore calabrese, al suo esordio letterario con 'Sono una Rock star', è un fiume secco di sconfitte sociali, un'opera rock su scena popolare composta con i pezzi una robusta playlist di fine novecento dove dal metal di una fabbrica inquinante si passa al più pesante acid di un'industria che ha devastato nel profondo le falde umane di una comunità del Mezzogiorno, nata sul mare dal mito spartano della prima colonizzazione magnogreca.


Vito Barresi | Cambio Quotidiano Social

Il fiume secco non è una metafora ma il letto di quel che ormai da un secolo è la fetida foce dell'Esaro. E' qui, che nelle ultime settimane d'estate del 1993, quando l'asta fluviale diventa un vero e proprio alveo infido e derelitto, che si svolge la scena centrale del libro, il cuore pulsante della conversazione che batte il tempo musicale di una generazione di giovanissimi maschi dalla pronunciata virilità stile Versace, alla ricerca di una via d'uscita dalla loro adolescenza dorata e inquieta, dai riti di passaggio, sessualmente quasi tribali del mondo locale.

E forse non a caso il fiume secco si trova esattamente nel punto magico in cui le donne achee bruciarono le navi ai loro uomini conquistatori, in qualche modo simbolicamente evirandoli nella tensione dell'oltre e della sfida, nello stesso sito leggendario, la location di una prova d'orchestra di grande coralità, quasi la lirica di un nuovo brigantaggio, in cui un'accecata classe operaia, polifemica e ferita a morte, brucia di notte, le sue fabbriche moderne, per rispondere con ira e vendetta alla tragica decisione dell'Eni di cancellare un secolo di storia industriale crotonese.

I bagliori di quelle fiamme restarono impressi come un gotico di periferia nei cinque sensi della gioventù crotonese degli anni Novanta. I propugnatori e i propagandisti di quella ambigua rivolta ammannirono una cerimonia del fuoco, una lotta sindacale avulsa, frammista di una poetica stracciona e strappa lacrime, quanto necessario magari per distruggere in fretta qualche prova di ben altra mostruosa polluzione territoriale.

Chi lo sa se un giorno qualche magistrato attento alla genesi sociale e storica della criminalità non troverà qualche correlazione con il successivo sorgere di certe imprese, magari leggendo quelle retro pagine di storia industriale come fossero le anteprime di un qualcosa che poi chiamiamo Isis, cioè più semplicemente terrorismo?

L’immagine è forte quanto lo spavento che provocò in quegli anni. Tutti hanno riammanito una propria edulcorata versione, sia lo stato che i ribelli, sia l’Eni che i mobilitati in deroga, persino la chiesa e la Magistratura circondariale.

Proprio perché artista, musicista e scrittore, Salvatore Parise ha il coraggio di raccontarla questa vicenda ancora misteriosa, sia nelle sue autentiche pulsazioni sia nelle sue più oscure e oscene pulsioni, disvelando che quelle giornate di lotta operaia non furono una semplice passeggiata di lotta sindacale, il preludio di un autunno caldo spinto dal vento di scirocco, ma qualcosa di più violento, disumano, ingiusto che ha bruciato non solo napalm, fosforo in quantità impressionanti, ma anche le sinapsi della città pitagorica.

E siccome storicamente, quanto politicamente non me ne faccio ancora una ragione, perchè bruciare le fabbriche utilizzando lo stesso fosforo utile per le micidiali bombe al napal nel Vietnam, in Etiopia, in Iraq e Iran, cioè scagliare contro la pacifica convivenza un arsenale di armi chimiche, comprendo la forza dello scrittore e ne leggo anche il disagio autentico di integrazione e dialettica in quella che è oggi la città in cui viviamo.

Distrutto il fondale mitologico delle donne e delle navi dei coloni greci, bruciata come sterpaglia la speranza del progresso industriale, contrapposta alla fame a alla miseria del latifondismo e del feudalesimo agrario, quel che restava ai ragazzi crotonesi di fine novecento altro non è stato che la via del treno,quando ancora c'era, della droga, dell'abbandono e dell'emigrazione.

Il sogno di diventare una rock star diventa principio e corollario per riprendersi il diritto a una vita negata nel ghenos nativo, raggiungendo spavaldi una Bologna bastarda, sessuata, con spigolature porno, che accoglie la risacca marinara del Mezzogiorno, le sue più esuberanti omosessualità meridiane, curandone l'indice repressivo e violento di una sessualità panica e psichicamente ingarbugliata da millenni.

Ho letto in contro sbalzo il diario di un voodo calabro in una Bologna di negri e pittbull, una specie di quadro alla Bilal, capitoli che rinserrano l'originalità dello scrittore, ne rimarcano la capacità di tessere un racconto che non è mai fiction, ma realismo allucinato, un tatuaggio intarsiato di passioni, playlist, verità estreme e sensuali, uniche da cercare sempre.

Romanzo a intarsio, scolpito e composto da mille piccoli libricini dell'istante, senza codice ideologico, e per questo non commercializzabile per il canone di spocchiosi e avidi padroni dell'industria editoriale. Leggerlo e degustarlo è un pò come mangiare un piatto etnico e locale, con un pizzico esotico di zenzero e vaniglia frammisto di peperoncino medio calabro.