Fernando Martinez de Carnero Calzada, ispanista, ha insegnato nell'Università di Torino e, attualmente, è professore associato presso le Facoltà di Scienze Umanistiche e di Lettere e Filosofia di Roma La Sapienza. Collabora con diversi mezzi d’informazione sull’attualità politica spagnola.
Patrizia Muzzi | Cambio Quotidiano Social
Partiamo dall’inizio, perché la Catalogna vuole l’indipendenza rispetto al governo centrale?
Lì risiede il primo problema: non è per niente chiaro il modo in cui la Catalogna vuole definire la propria relazione con lo Stato spagnolo. La coalizione finora maggioritaria non è per niente eterogenea e pur essendo a favore della secessione, non hanno la stessa concezione dello Stato catalano e di come si dovrebbe relazionare con la Spagna. L’unica certezza è che circa l’80 per cento dei catalani è a favore di decidere autonomamente. Dall’altra parte abbiamo il governo di Madrid che è guidato da un partito che da tempo ha voluto risolvere per via giuridica e costituzionale il problema. Non ha avuto il coraggio dimostrato dal Regno Unito rispetto al problema con la Scozia. L’unica certezza è che circa il 70% degli spagnoli sarebbe favorevole a una soluzione dialogata.
Le prossime saranno ore decisive: Puigdemont ha dichiarato l’indipendenza della Catalogna tra il boato della folla che ascoltava dalla piazza l’esito della votazione.
Sicuramente i momenti di maggiore tensione sono già passati. La resistenza catalana è stata finora molto pacifica e anche se il popolo secessionista si tende a mobilizzare puntualmente, adesso la partita si gioca intorno al livello di ribellione sociale rispetto all’articolo 155. Anche se la versione in cui è stato formulato continua a essere dura, si è scoperto subito che il governo statale ha usato l’intimidazione iniziale per abbassare dopo la soglia. C’è molto gioco psicologico in questa partita. Anche il modo in cui il parlamento catalano cantava l’inno dopo la dichiarazione d’indipendenza somigliava ritualmente quasi un Requiem. Non era la gioia di chi raggiunge un traguardo, bensì l’espressione della consapevolezza di aver lanciato una sfida che avrà delle conseguenze assai complesse e sofferte. Se vogliamo entrare nei particolari che ci stanno a indicare quanto fosse delicata la situazione, dobbiamo soltanto riflettere sul fatto che i voti in bianco e i voti contrari segreti non erano casuali, bensì erano destinati a rendere più difficile le misure che, dal punto di vista giuridico, potrebbero recare delle forte sanzioni economiche o delle condanne ai membri del parlamento che hanno partecipato alla votazione.
Il presidente Rajoy ha attivato l’articolo 155 della costituzione spagnola che, di fatto, permette il commissariamento della regione catalana. Tecnicamente chi ha ragione?
Quando il Diritto Internazionale non ti assiste, quando hai convocato un referendum ovviando non soltanto le leggi nazionali, ma persino il proprio regolamento approvato dal parlamento catalano, dovresti sapere quali sono i rischi che queste azioni comportano. Il problema è che questi articoli che in qualche maniera hanno tutte le costituzioni si scrivono pensando che non dovrebbero essere mai applicati. Bisogna considerare inoltre che la costituzione spagnola, che nacque sotto l’influenza d’importanti giuristi di rilievo internazionale, come Norberto Bobbio, è stata anche sorvegliata dai militari e dai poteri eredi del franchismo. Questi articoli, poco trascendenti in altri contesti, sono stati redatti direttamente da queste forze e sono ancora più privi del solito della dovuta precisione propria del professionale del diritto. Per questo motivo si dice che attuare il 155 fosse entrare in territori sconosciuti. Il testo è ambiguo e Rajoy ne ha approfittato per cercare l’interpretazione che potesse concedere più poteri al suo governo. Se inoltre hai sotto controllo la maggioranza anche nel Tribunale Costituzionale, il gioco è fatto. Quindi, possiamo affermare che l’articolo va applicato in un modo che desta tantissime perplessità a molti specialisti, ma se inoltre hai anche il sostegno dell’UE, tale circostanza diventa aneddotica.
L’Europa e gli Stati Uniti hanno dichiarato che l’unico interlocutore può essere il governo di Madrid. Nel frattempo le borse hanno già risentito dell’incertezza politica. Pensi che i catalani siano più vittime di sé stessi o che siano ben consapevoli di quello che stanno provocando?
Il Regno Unito, anche se c’è stata la Brexit, ha dei problemi con la Scozia, la Germania coi bavaresi, la stessa Italia ha dei potenziali rischi con la Lega Nord e con altre regioni di confine. La parola d’ordine dopo la Seconda Guerra Mondiale è stata non toccare le frontiere. Il Kosovo è stato un’eccezione, e non a caso non è riconosciuto dalla Spagna, malgrado le pressioni dell’UE. Nessuno vuole rischiare. Le reazioni economiche hanno una parte di realtà e una parte di collaborazione orchestrata, come accadde col referendum della Grecia. Madrid ha concesso il permesso alle imprese di cambiare sede in tempi più veloci di quelli previsti in precedenza, giustificandolo con la grande quantità di richieste che avrebbero ricevuto dopo il referendum. È evidente la malafede nel prendere tale misura, ma questo fa parte del gioco dissuasivo. Va detto che in qualsiasi caso sarebbe accaduto e che ovviamente i mercati reagiscono male di fronte alle situazioni politiche d’incertezza, ma tutto quanto era prevedibile. Forse tutto è avvenuto in un modo molto più contundente e veloce di quanto avrebbe mai immaginato la Generalitat, ma non possiamo immaginare che non fossero consapevoli di queste conseguenze. Del resto, è evidente che l’indipendenza è un processo lungo e che sicuramente sarebbe stato soltanto possibile uscendo dall’Euro. Non era la finalità. Avevano, forse hanno ancora, in mente uno scopo diverso: consumare una crisi di Stato. Il problema è che Rajoy è in grave difficoltà e ne ha approfittato al volo per giocare le sue carte tentando di trarre profitto dalla situazione. Il PP (Partido Popular) ha pensato che se supera questa crisi può anche chiudere la crisi di regime e di credibilità politica che esiste nel paese.
La situazione della Catalogna è davvero paragonabile ad altre situazioni europee? Pensi che questo stato delle cose possa innescare altre mire indipendentiste?
Dobbiamo pensare alla Grecia. Come è accaduto in occasione del loro referendum, le politiche neoliberiste non si accontentano di vincere: devono umiliare l’avversario in modo che la punizione sia esemplare. Viste le difficoltà e la mancanza di sostegno internazionale, si è molto lontani da incoraggiare altri tentativi di secessione.
Durante lo scorso referendum, vedere i Mossos schierati dalla parte dei cittadini, ha sorpreso un po’ tutti, almeno qui in Italia. La violenza utilizzata da Rajoy gli è tornata indietro come un boomerang, provocando un sentimento di disprezzo ancora maggiore da parte di chi già mal sopportava le sue scelte politiche. Credi che si rischi una vera e propria guerra civile?
È impossibile. Ho sentito di recente questo tipo di affermazione con molta sorpresa. Dovete considerare che la guerra civile spagnola è stata possibile perché l’esercito era diviso. È stato un colpo di Stato fallito nel quale una parte dell’esercito ribelle ha mantenuto le forze ed ha ricevuto un sostegno internazionale. Questa possibilità non è presente fra gli attuali avversari. Non è casuale che il governo statale abbia usato le forze dell’ordine e non i militari. I catalani non hanno nemmeno il controllo tributario, affidato finora alle agenzie statali; farebbero già fatica senza un buon rapporto col governo statale a portare avanti un periodo di transizione nel quale dovrebbero pagare le pensioni, affrontare dei debiti per infrastrutture pubbliche, ecc. La Catalogna si è dimostrata un popolo pacifico, ma nemmeno volendo potrebbero inventarsi un esercito che non esiste. Alcuni, e non pochi, hanno una vera overdose di film di Ken Loach; ma per quanto certe immagini romantiche di lotta storica sociale ci possano stare a cuore, la realtà, in questo caso per fortuna e per tranquillità di tutti, è ben diversa. Ho notato che persino molte persone intelligenti e istruite rimanevano deluse dell’atteggiamento poco chiaro di Puigdemont, come se fosse una sorta di rivoluzionario. In Italia, se togliamo il conflitto territoriale, sarebbe un personaggio del centro destra. Gentiloni rischierebbe, caso mai, di essere un radicale pericoloso se confrontassimo il pensiero politico dei due personaggi.
Tu conosci bene il pensiero politico di Podemos. Quale sarebbe la strategia migliore per ristabilire l’ordine e la fiducia nei cittadini catalani secondo questo partito?
Podemos, anche se descritto sovente come un partito populista, si è mantenuto in tutta questa crisi fedele alle proprie proposte di riforma territoriale, pur essendo consapevoli di non trovarsi in una situazione favorevole. Con quelle premesse, non c’era spazio per una politica demoscopica. Ma dobbiamo rilevare che nemmeno per il PSOE (Partido Socialista Obrero Español) è stato facile. Podemos, come IU (Izquierda Unida), punta da tempo a una riforma costituzionale che possa dare come risultato una nuova Spagna federale. La secessione catalana ha polarizzato per ora lo scenario e, pur consumando definitivamente la crisi di Stato in Spagna, ha allontanato per ora questa soluzione. Il sostegno al 155 impedisce ai socialisti di avere i consensi necessari dei partiti delle regioni storiche per il loro solito riformismo da copertina. Rajoy vuole senza dubbio quel che possiamo immaginare gli è stato chiesto dall’UE in cambio del loro sostegno: un tipo di riforma come quella bocciata dai cittadini italiani, mirata a togliere potere alle regioni. Ma Podemos ha subito avvertito: questa volta non si potrà fare come con la riforma del lavoro. Podemos ha i numeri in parlamento per poter forzare il referendum. Di conseguenza, non appena risolta la questione catalana, tenteranno di dimezzare i seggi di questo partito convocando delle nuove elezioni nazionali. Sembra evidente, ma il 155 chiede la presenza di un governo forte ed è sempre rischioso aprire il fronte elettorale senza aver chiuso la crisi. Ma in Spagna, in questo periodo, sembra che quasi mai accada quel che possiamo ritenere ragionevole.
L’Europa è un progetto fallito?
Lo è. Ma questo non diventerà un fatto consumato fino a quando la Germania e la loro area di influenza più diretta non decida che conviene ai loro interessi cambiare le regole del gioco. Nel frattempo, il neoliberismo sorveglia qualsiasi possibile involuzione di tendenza che metta a rischio il loro modello economico.
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