Voglio invocare in questo momento – che è un momento di riflessione e di presa di coscienza di tutta la città di Crotone e, direi, di tutto il territorio – una parola capace di mettere speranza là dove, a volte, sembra prevalere soltanto la forza bruta che nasce dalla disperazione e genera sconforto. E la Parola che vorrei porre all’attenzione di tutti è quella che abbiamo ascoltato nella liturgia di oggi, a partire dal brano del profeta Isaia, che invoca la forza profetica della Parola di Dio.
di Don Serafino Parisi*
Perché dentro questo nostro contesto, nella vicenda che stiamo tutti quanti, qui, vivendo – certamente con intensità diversa ma che sentiamo tutti nella nostra carne, sì, ce la sentiamo lacerata questa carne, tutti, - e dentro queste lacerazioni irrompe quella parola di Isaia, detta dal profeta in riferimento al Messia che verrà, al Signore che porterà la pace, che “stabilirà” la giustizia e la pace. È quella parola che è capace di rigenerare tutta la storia, che però esprime un’esigenza per noi, là dove si legge, nella prima lettura: Sì, “il Signore sarà giudice e arbitro tra molti popoli”, e là dove dice che devono essere trasformate “le spade in aratri e le lance in falci… perché non possiamo più imparare l’arte della guerra”.
E per me è significativa questa immagine: le lance che si devono trasformare in falci e le spade spezzate – sì, spezzate perché non servono – si devono trasformare in aratri. Vale a dire che tutto ciò che dà l’impressione ad un uomo malato, ad un’umanità malata, di poter imprimere, con l’uso di questi strumenti di morte, una svolta nella storia, deve essere trasformato in strumento di lavoro… e che lavoro! Quel lavoro che è capace, come si fa con la falce, di raccogliere il grano ormai maturo; o come si fa con l’aratro col quale si incide dentro la terra un solco di speranza. Perché soltanto dentro una terra aperta e resa capace di accogliere la speranza può nascere la storia nuova.
Questa è la lettura che ci è stata data da Isaia, oggi. Si tratta di una parola che ci consente certamente di interpretare questo momento, ma è anche una parola che ci indica un percorso che tutti dobbiamo seguire.
Oggi – volendo considerare la grande partecipazione di tutto questo popolo, in Chiesa e in piazza Duomo, alla presenza delle massime Istituzioni – dobbiamo dire che si sta manifestando una sorta di “ribellione morale” (cfr. Card. Martini su situazione di Milano 1993). Questa pacifica rivolta – che si ripete per la seconda volta dopo la fiaccolata dell’altra sera, organizzata in modo estemporaneo ma molto partecipata, e nell’Eucaristia che stiamo celebrando oggi – questa pacifica rivolta ha avuto certamente come evento scatenante l’assassinio di Giuseppe, ma ha cause e ha radici più profonde. È la manifestazione pubblica di un malessere intimo, fino ad ora sommerso, che però si sta mostrando pubblicamente, oggi come l’altra sera, con un duplice significato: quello di vicinanza di un’intera comunità, come dicevo, anch’essa ferita, al dolore di una mamma, di una famiglia; però ha anche un altro significato, quello del rifiuto e del disgusto per tutto ciò che è successo e per come è accaduto. Credo che con questa partecipazione ci si voglia liberare anche da un incubo che pesava sulla vita di molti e che prelude, questa è la speranza, alla presa di coscienza del vero problema, della sua gravità, della sua pervasività. Io spero che tutto questo possa preludere a quella presa di coscienza collettiva che deve portare a far emergere le forze sane finora paralizzate dalla spregiudicatezza di alcuni o barricate nella rassegnazione, figlia – spesso – della sensazione di impotenza.
Come capisco, questa almeno è la mia interpretazione, Crotone ha deciso di fare i conti con questa dura realtà che ci ha scosso e qui sta affermando che non è possibile e non è giusto fare pagare tutto l’amaro conto alla sola madre o ai familiari di Giuseppe. Ecco perché credo che – volendoci liberare un po’ dai retaggi passati, nei quali spesso amiamo cullarci – quella di oggi sia non tanto un momento catartico quanto piuttosto una “reazione di rigetto” che accade in un corpo malato ma che ancora vuole combattere e vuole guarire, ricorrendo alla cura della speranza, cioè facendosi carico dell’avvenire… del nostro avvenire.
E allora è necessaria una insurrezione delle coscienze per dire basta a questa barbarie che ha condotto a questo omicidio, e per dire basta a tutte le forme di barbarie e di degrado. L’uomo, il cristiano, il credente ha la forza di risollevarsi. Il riscatto, la redenzione – detto in termini cristiani – il riscatto, la redenzione, però, richiedono il nostro impegno responsabile, passando dalla rassegnazione atavica, dall’atarassia deresponsabilizzante, all’impegno. Un impegno che deve essere pensato, strutturato, costante e non episodico, in ogni caso deve essere un impegno concreto.
Non voglio indugiare nelle analisi, però va detto che gesti come quello che hanno portato alla morte di Giuseppe accadono nella desolazione più piena, in un tessuto sociale che si è sbriciolato, nell’annichilimento di ogni principio fondamentale e nella relativizzazione di ogni valore, formando così quelle sacche di umanità, quelle “periferie esistenziali” di cui parla Papa Francesco, che sono crogiuolo di tensioni umane e, spesso, di aspirazioni represse che fanno chiedere a chi ci si trova dentro e a chi osserva da lontano: “Quanto vale la vita di un uomo?”. E fanno chiedere ancora: “Uomo, dove sei?”. Perché c’è una chiamata alla responsabilità dell’uomo quando accadono fatti come questi. “Uomo dove sei”? Giacché pare sia scomparsa, sia fuggita l’umanità, ogni forma di umanità!
Non lo dico sul piano dell’intensità, ma certamente su quello della solidarietà, che il lutto di una mamma è in realtà il lutto di un’intera collettività e oggi questo lo stiamo dimostrando. Katia, mi rivolgo a te, ai tuoi figli, ai tuoi familiari. Tu hai assistito all’uccisione di Giuseppe. Lo sai, a Maria, la Madre del Signore, le era stato predetto: “Anche a te una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2,35b). Si tratta di quella stessa spada di cui parlavo all’inizio e che deve essere definitivamente spezzata. Lo sai, anche Maria, la Madre della Chiesa, sotto la croce ha provato lo stesso dolore straziante. Tu quel pomeriggio hai gettato un urlo che, in questi giorni che sono passati, è stato addirittura amplificato. È un urlo come quello registrato nella Bibbia, in Geremia 31,15, ed evocato nella narrazione evangelica della strage degli innocenti. Sì. Richiamo volutamente la strage degli innocenti che con il loro sangue hanno testimoniato la fedeltà al progetto di Dio, alimentando – sia pure in modo inconsapevole ma efficace – “l’economia sommersa della grazia” (cfr. don Tonino Bello). Allora come oggi, quel piano divino è incomprensibile per noi, perché quando muore un ragazzo nel pieno della sua vita – cari giovani, mi rivolgo a voi – quando muore un ragazzo della vostra età, anche Dio è chiamato direttamente in causa. Perché è un fatto che non si comprende. Umanamente non riusciamo a comprendere come sia possibile che avvengano cose di questo tipo e ci viene quasi da dire: “Ma, Signore, dov’eri? Dov’eri quando accadeva questo?”. Ci sono nella Bibbia urla come queste, come in Giobbe che sfida il Signore a mostrarsi e a “giustificarsi” per far capire in definitiva che cosa voglia, quale sia la sua volontà. Certo, se noi leggiamo attentamente quello che è accaduto a Giuseppe, dobbiamo dire: viviamo la vita con intensità, senza sprecare nemmeno un attimo di tempo che ci è regalato, perché la vita è un dono e questo dono lo dobbiamo proteggere. È un regalo che dobbiamo custodire, preservare e trasmettere, cioè consegnare agli altri, perché per questo siamo chiamati: per accogliere la vita e per regalarla a nostra volta. Tutto ciò, riflettendo sapienzialmente in questo momento triste, ci fa comprendere che la vita è un bene a termine e pretende di essere vissuta pienamente, senza fughe, senza illusioni, senza elusioni, senza scorciatoie e senza, magari, sogni costruiti a tavolino, per un’altra dimensione, per una realtà “altra”, che non è la nostra, che non ci interessa, che vediamo fuori di noi e che ci pone fuori dal mondo vero, mentre perdiamo l’occasione di costruire la storia della nostra vita… che è vita nostra!
Per questo ho evocato la strage degli innocenti. Dice Matteo (2,17-18): “Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più”. Allora come oggi, Rachele – come Katia, come Maria, come tante altre donne di questo nostro mondo – riassume la sofferenza, e la riassume in un dolore femminile, materno, viscerale, che grida forte un malessere frastornante; e in quanto “urlo” coinvolge tutti: attenti e distratti, comparse e attori principali. È un urlo che denuncia le storture, la violenza, il degrado, come denuncia pure l’assurdità di un dolore incomprensibile alla nostra ragione umana.
Ci sono parole di fronte a questo dolore? Sì. Cristianamente dobbiamo dire che ci sono le parole. C’è la Parola della profezia che, innanzitutto, ci suggerisce con Isaia, che con la violenza non si risolve nulla e che con l’impegno – cioè con la fatica di arare la terra, di seminare, di prendersi cura del seme seminato – che con “la fatica dell’impegno” c’è la possibilità di far sorgere fiori nuovi, alberi nuovi e frutti maturi in un terreno che potrebbe essere immaginato come desolato e per questo sovente abbandonato.
E allora a voi giovani, in aggiunta, dico la parola che ci ha rivolto il Vangelo di oggi e che tutti noi abbiamo ascoltato: è una parola di consolazione, di speranza e di stimolo all’impegno. Certo, tutti conosciamo il brano del Vangelo di Matteo che è stato proclamato poco fa: è quello del giudizio universale. Questo brano del giudizio ci dice che, sostanzialmente, alla fine della nostra vita saremo giudicati sull’amore, sulla capacità di apertura, di disponibilità, di accoglienza dell’altro che avremo avuto. Però, dentro questo testo, c’è una parola ancora più profonda rispetto al giudizio. C’è una parola più esigente. C’è una parola originaria e che, paradossalmente, prepara questo giudizio ed è la parola “cura”, la cura, il prendersi cura. Nei nostri impegni programmatici – lo dico a noi che abbiamo questo compito di orientare la gente, di cogliere con lo sguardo giusto i vari processi e le varie dinamiche della realtà per servire efficacemente il bene comune – nei nostri impegni programmatici, dobbiamo inserire questa parola, “la cura” che poi è lo stile di Dio che, come ci ha ricordato il bel testo del Salmo responsoriale, parte dagli ultimi. In ragione di questo suo stile, Dio si fa carico dell’altro. Quando l’altro lo sento come una zavorra, allora vengo messo alla prova e vengo chiamato a portarne il peso, a “con-dividere” il suo carico per rendere più agevole, in qualche modo, il suo cammino. Prendersi cura vuol dire questo: diventare responsabili della sorte del prossimo, in modo particolare di chi è oppresso e di chi è sotto il giogo di svariate forme di schiavitù. Prendersi cura significa divenire responsabili del futuro del bisognoso e del sofferente e dell’avvenire del povero e dell’afflitto. Fra l’altro, il loro avvenire è anche il nostro! Da questa logica “divina” che rispetta i tempi lenti, la condizione precaria e i sospiri asfittici degli ultimi – cioè di tutti coloro che rendono duro anche il nostro cammino e impegnativa la nostra esistenza – dovrebbero prendere forma le nostre politiche sociali, che andrebbero intonate con il rantolo svigorito dei deboli e non con i fragori pretenziosi dei potenti e andrebbero finalizzate – come è espressamente richiesto – all’inclusione, all’elevazione sociale e culturale e alla liberazione integrale dell’uomo di modo che nel volto di ognuno possa apparire la bellezza della persona umana e della sua dignità… che rimane vivida oltre ogni temperie.
Come si fa a prendersi cura dell’altro? Lo vorrei dire con una formula conclusiva dedicata, con il pensiero e con il cuore, a Giuseppe, ma anche alla mamma, al fratello, alla sorella e a tutti quelli che, come loro, subiscono il dramma della violenza, lo subiscono vedendolo accadere davanti ai propri occhi e nell’impotenza di fare ciò che ognuno avrebbe voluto fare, spezzare la spada per farne un aratro e trasformare la lancia in una falce… per il lavoro. Lo dico, dunque, pensando a Giuseppe: dobbiamo imparare tutti – uscendo dalla realtà ormai virtualizzata, che ci anestetizza, che si presenta come un dramma quando ci isola dalla concretezza storica del nostro vissuto ibridizzando le nostre relazioni – dobbiamo imparare a costruire rapporti di comunità, fatti di relazioni vere e non “digitali”, di legami personali e immediati, non di improbabili “amicizie” generiche e remote o “anonime” e vissute/tenute a distanza. Rafforzando i presìdi – ma quando dico rafforzando i presìdi – intendo dire i presìdi culturali: non con le telecamere, né con la militarizzazione del territorio, che ci vorranno pure, ma intendo dire che, innanzitutto, c’è bisogno di umanizzazione dei rapporti per costruire comunità. E le nostre comunità risorgeranno proprio quando ci sarà un progetto di umanizzazione, una civiltà nuova, creativa, che punti a creare rapporti nuovi, mi piace dire “relazioni calde”, umane. Allora: c’è l’indicazione di un percorso possibile? Sì! C’è l’indicazione di un percorso possibile. Non dico che sia la soluzione, perché – affinché sia la soluzione – è richiesta davvero la partecipazione di tutti. Però è un percorso possibile, di riumanizzazione, di rifertilizzazione: proprio come fa l’agricoltore che porta la terra buona per rendere fertile anche la terra arida. E poi occorre “guardare oltre” le cose che accadono e che interpellano le nostre coscienze e oltre tutte le domande che questi fatti generano: quella sul senso e sul valore della vita umana, quella della “scomparsa dell’umanità” che si registra allorquando accadono fatti di feroce brutalità e quella sulla presenza nascosta eppure appassionata di Dio nelle vicende degli uomini. Occorre, allora, orientare la storia assumendo lo sguardo della fede che ci fa vedere attraverso gli squarci lasciati dalle ferite mortali e al di là della stessa morte, di ogni forma di morte, la vita.
E chiudo con questa immagine. Vedete! Noi oggi siamo messi così: sia quelli che sono fuori, in piazza Duomo e nelle vie vicine, sia noi che siamo nel Duomo, paradossalmente stiamo guardando verso le spalle del Duomo, ossia stiamo guardando verso il centro storico, perché – lo sappiamo bene – la città non finisce col Duomo. Ecco perché va valorizzata la nostra posizione di oggi, in piedi, cioè pronti ad agire, pronti a muoverci, pronti a camminare, proprio come diciamo della Madonna di Capocolonna: è in piedi, con lo sguardo coinvolgente rivolto all’uomo e nell’atto di compiere quel gesto materno, primordiale, di offrire il seno per dare il latte. È la Madre che nutre il figlio, custodito in un abbraccio tenero e pronto per essere consegnato all’umanità in attesa. Come Lei, allora, con la stessa voglia di curare, di custodire teneramente, di allattare, di offrire il figlio al mondo, in piedi, dobbiamo guardare oltre il Duomo, al di là della Basilica Cattedrale, perché la città continua, non finisce con ciò che è solo il proscenio. È invece l’intero nostro territorio – mi rivolgo a tutti, ma in modo particolare ai giovani – che ci deve vedere non comparse o mercenari, ma protagonisti e attori principali della costruzione del futuro della nostra città e del nostro comprensorio. Questa è Parola di speranza. Ma la nostra speranza si coniuga con quella che viene dall’alto che ci indica l’orientamento. E questo è ciò che Dio ci chiede per collaborare attivamente al suo disegno di amore e di salvezza per noi: dire parole di umanità là dove c’è la brutalità, seminare parole di vita là dove c’è la morte, pronunciare parole di giustizia e di verità là dove c’è la menzogna e l’ingiustizia. Questa è la profezia. Questa è la speranza. Questa speranza, però, pretende il nostro coraggio. Adesso.
Così sia, per tutti noi. Amen.
*Biblista, Vicario Episcopale, Rettore della Basilica Cattedrale, Parroco della Parrocchia “ San Dionigi Aeropagita” in Crotone
Il presente testo è tratto dalla registrazione dell’omelia pronunciata “a braccio” e conserva, volutamente, il carattere del “parlato”. Tuttavia, lo scritto è stato rivisto in alcuni sporadici punti al fine di renderne più chiara la comprensione e – sempre per ragioni esplicative e a completamento del pensiero – vi sono stati aggiunti quei passaggi, collocati soprattutto nell’ultima parte, preparati per iscritto nel canovaccio ma, per ragioni di tempo, non pronunciati.