Pino Pentecoste tra Rispetto e sistema morale di Luigi ‘O Garagista. Noir napoletano di Giuseppe Ferrandino

8 aprile 2018, 11:51 100inWeb | di Vito Barresi

Pino Pentecoste è un detective privato che ha una parola sola. Uno che con la lingua non si piglia spasso. Per lui il rispetto sta in cima alla scala dei valori. Che non è una frase fatta. E lo si capisce dalla sua identità. Nato com’è in quel di Napoli, dove abita in un palazzo vicino a Piazza Cecere, a via Buonconsiglio numero 27. Tra un “Lancio Story” e un’occhiata al film di Miki Stewart, la sua vita trascorre monotona tra fatti di amanti e dicerie di cornuti d’improvviso ravvivata da un lampo sensuale di nome Mariella: ”la più magnificamente incredibile fica di tutta Napoli”. Di professione mignatta, all’insaputa dei suoi, che lo vuol bene gelosamente.


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Immaginifico e visuale come le tavole di un fumetto, il personaggio inventato da Giuseppe Ferrandino è al centro di un itrigo napoletano raccontato con passo brillante nel romanzo pubblicato da Adelphi, “Il rispetto”.

Lo slang italo-partenopeo del ‘volgar eloquio’ di Pino Pentecoste, in lotta contro lo scemenzaio tamarro della guapperia campana, è lo specchio linguistico di una Napoli sudata, surrealmente colta sospesa tra i suoni dei suoi piccoli mondi antichi e gli urli delle sirene che solcano l’asfalto di una città globale.

Un bel giorno nel suo studio si scarica una gragnola di strani e loschi individui.

Innanzi tutto Tullio Regina. Un biscazziere napoletano, lestofante sanguetta e baciapile. Uno che ha sette cavalli dai nomi scintillanti e fantasiosi. A cui aggiunge di straforo uno straordinario appaloosa di ventiduesima generazione, chiamato Lory e sfilato alla gang di Torchi e Groffi.

Chi sono? Due tosti professionisti della mala che avevano rubato l’equino blasonato a un industrialotto dei pelati, pazzo per l’ippica e i cavalli da corsa. Regina, a sua volta, braccato dai legittimi ladri, offre all’investigatore privato ben quattrordici milioni per recuperare un camion abbandonato in una periferia vesuviana. Pentecoste rifiuta. E nel suo ufficio si scatena un via vai senza precedenti.

A valanga arriva per prima ‘Giorgina la Pezzaiola’ che gl’intossica l’anima con la sua storia dell’offesa e dell’uomo di merda; poi il commissario Scottopaldi con un ‘bailamme’ di legnate e citazioni filosofiche; e, infine, don Bartolomeo “o parricchiano”, giunto in quell’appartamento con la scusa di benedire la casa, mentre in realtà era solo per avvertire Pentecoste che lo stavano mettendo in mezzo come “un mazzo di scarola”.

Con il rischio conclusivo di finire presto morto ammazzato. Così quando Regina è nella morsa fa cadere le colpe sull’ignaro Pentecoste.

Allora si scopre che l’intrallazzatore si è alleato niente meno che con zio Fiolomeno Artusi, capo di una cosca camorrista che sguazza nel gioco d’azzardo, gli ippodromi e il lotto clandestino. In mezzo ci stanno quattrocento milioni del vecchio conio. Ma anche, in fondo a un vicolo, il cadavere del guappo Natale Capace, sgerro fidato di zio Filomeno.

Memore del detto che ogni scarafone è bello a mamma sua, Ferrandino lo scrittore già padre di Pericle il Nero, per sagomare al tornio letterario il profilo ‘scetato’ di Pentecoste non gioca mai sugli scambi tipici di un serial televisivo.

Così riesce a stilizzare pagine terse, intensamente meridionali, fittamente dialogali e consce, dove più che l’angoscia del delitto conta l’umanità di un genere investigativo che si tramuta in un curioso e originale “giallibro”.

Personaggio scontroso e introverso, rinchiuso nel proprio guscio come un' “allesse”, il detective di Spaccanapoli non è mai figurina incollata sull’album della macchietta. Né tanto meno fa la comparsa della popolare arte della sceneggiata napoletana.

Lo stesso sistema morale di Pentecoste non deve trarre in inganno. Poiché d’altra parte lui stesso lo ha appreso da ‘Luigi il garagista’ per cui l’importante non è stare dalla parte della legge ma rispondere in coscienza alla propria coscienza.

Quando, invece, in realtà tra “n’addore ‘e fritto” e i poliziotti in borghese che mangiano panini alla ventresca, penetrante e radicale si staglia l’avversione alla subcultura della guapperia.

Tale da consentire al romanziere di smontarne la mimica e la retorica, frammentandone la gestualità, isolandone le mosse sguaiate, i tic labiali e i ricorrenti lapsus linguistici.

Ma anche di riconoscere in questa distorta ricchezza linguistica il principio forte di una comunicazione quotidiana, cronicizzata nella delinquenza e nell’omertà diffusa, implacabilmente svelate da questo minuzioso scrutinio letterario dell’animo camorrista.

Scrittura godibile e creativa. Lo spaesamento della ricapitolazione e il controcanto delle puntate precedenti, fanno questo romanzo un raffinato ‘soft-noir’ napoletano.

Dove il parlato è un vorticoso origamo che produce e riecheggia il divertentissimo e intenso effetto speciale di un aromatico caffè espresso.