L’indimenticabile compagno Lou Castel sulla Riva Sud del nostro ‘68

Anche se il nostro “maggio” ha fatto a meno di un pò di ‘coraggio’, proprio il giorno in cui si trattava di mettere la firma in calce su un foglio bollato di autodenuncia collettiva, onde evitare un’incriminazione penale per radunata sediziosa, non fummo però in pochi a Crotone a ritrovarci, improvvisamente insieme, primi cuccioli di un ’68 di provincia. Per quanto in periferia, l’ondata studentesca arrivò senza chiedere permesso persino tra noi, con tutto il roboante fracasso di un’evento di cronaca che riempiva le pagine dei giornali, surclassando un appena fugace preambolo beatnik, cancellando un raro cenno di voga ‘hippyes’, figli dei fiori in fuga sulle strade della libertà, verso Amsterdam, Londra e Parigi, alla ricerca di droghe vegetali e di sballi psichedelici. Come per urto di misterioso potere, a partire dal ’68, tutto il mondo si capovolge e finisce sottosopra.


Vito Barresi | Cambio Quotidiano Social


Tanto rapido l’avvento ordinale del magico numero che a farne subito le spese, prima ancora della politica paesana, furono proprio quei timidi ‘libertari’ che videro ben presto soppiantate le loro colorate patacche di ‘Peace&Love’ con gli austeri stemmi, orgogliosamente appuntati al petto, di “Viva il Pensiero del Grande Timoniere Mao Tse Tung”.

Cominciò così il “maggio crotonese”, più con i Beatles che con Bandiera Rossa, più alla “disco” dei Fratelli Briguglio che alla Sezione Centro del PCI in Piazza Municipio. Un'epoca intensa e ancora oggi inesplorata, forse persino accantonata da quelli che furono indigeni profeti di una rivoluzione continua che dura ancora lungo tutto il corso della nostra vita.

Ma pure un tempo convulso e rapido di controcultura e rivoluzione in cui s’avviò la tessitura difficile di una straordinaria e controversa conversazione, tra una parte della nuova generazione e il mondo comunitario di una piccola città del sud, culturalmente in ritardo, eticamente moralisteggiante, spiritualmente ipocrita e bigotta, politicamente ottusa e codina, strutturalmente refrattaria al vento dell’innovazione, del confronto, della democrazia diretta e del cambiamento.

Ci trovammo spiazzati nella terra dove nessuno doveva sapere chi violentava una ragazza in un club, chi uccideva un ingegnere nucleare in un campeggio, chi metteva una bomba al comune.

Molto spesso fuori gioco, in mezzo al fuoco di un falso perbenismo che si ammantava di ‘ndrangheta, alla frattura sessista che costringeva le ragazze al corso maritale endogamico, al rifiuto classista dei ricchi 'socialisti' del giorno dopo, all’ostracismo partitico dei comunisti traditori del popolo, al benpensantismo dei rampanti massoni, all’ignavia dei religiosi di apparato, al disprezzo dei previtoccioli del parastato democristiano.

Ben presto ci accorgemmo di andare controvento. Racconterò quell’intensa esperienza come un videoclip. In un rione popolare ci buttarono dalle scale quando andammo a diffondere un questionario ciclostilato sulle condizioni di vita di quartiere.

Un “flashback” con le sue musiche e i suoi dialoghi di sfondo: davanti alle fabbriche non prendevamo pugni dai “compagni operai”, anzi si faceva un gran successo, solo quando arrivavano le compagne di “Pot-Op” in minigonna, specie il giorno in cui la scrittrice Adele Cambria, diffuse un foglio rivoluzionario, in perfetto stile giornalista “nude look”.

Cinquant’anni dopo, la rivista di quei giorni di ribellione e gioventù, mi fa riflettere smarrito che c’è voluta molta sana follia per aderire a quel grande esperimento sociale e politico che fu l’assemblea aperta e la fabbrica occupata, tanta passione civile per farsi etichettare extraparlamentare di sinistra, molta voglia di lottare a fianco ai lavoratori per aprire un varco al dialogo in quel che era la sinistra stalinista dentro e fuori il sindacato, una lodevole tenacia per credere davvero che non si può mai svendere l’ideale immacolato che cantava in comunità “We Shall Overcome - deep in my heart, I do believe - I'll overcome some day".

Come la letteratura tematica ha più volte evidenziato il linguaggio della protesta sessantottina deve molto alla sovversione semantica, alla comunicazione emozionale, al profondo spirito di riforma, al gusto dell’eresia contro ogni monolitismo cattocomunista, così che a parte qualcuno che già s’infervorava (che dire, già si vedeva albeggiare la transumanza di quel deputato che sentiva in ogni dove odor d’estremista poi divenuto araldo romano del berlusconismo) “sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi”, per fare il bilancio del’68 e degli Anni Settanta a Crotone, occorrerà preliminarmente stabilire che si è trattato non di una moda “privata” fatta di eskimi e “gauloises”.

Né tanto meno di un’allucinazione ideologica (stella rossa non perdona anche quando la confusa invettiva contro il parlamentarismo si è tramutata nella forsennata corsa per la medaglietta) ma un fatto sociale totale, tanto vero e reale che, riguardato criticamente in controluce, appare sfaccettato e complesso.

Cercherò di spiegarlo tentando almeno di elencare due eventi concreti, ripresi nell’inchiesta e osservazione partecipante, sul confine che segna l’irrompere del pensiero politico internazionalista nel fluire tradizionalista della vita quotidiana locale: lo scoppio di ben due rivolte popolari a carattere rurale, di cui una, culminata con il rogo del municipio a Cutro, capeggiata da Rosario, un contadino conquistato dalle idee marxiste-leniniste e maoiste, fondatore di un Partito Comunista (PCd’I), alternativo a quello sovietico cosiddetto “revisionista”, al cui fianco si notava Nicola, uno studente crotonese dalla foggia guevarista di cui si vagheggiava un mitico viaggio in Cina per sfuggire alla repressione poliziesca, e poi l’altra sfociata nell’occupazione delle terre a Isola Capo Rizzuto.

Accanto, il dispiegarsi di un enorme movimento studentesco cittadino con al centro la rivendicazione dell’istituzione dell’università in Calabria “subito e al punto giusto”, il cui “quartier generale” si collocò nella federazione del Partito Comunista Italiano, spazio della contestazione giovanile, luogo di aggregazione sia per la destra che per la sinistra “under 21”.

Entrambe, grossolanamente d’accordo, almeno sull’opinione per cui nel sogno americano bastava acquistare un litro di whisky per ricevere in cambio la menzogna che lo accompagnava, mentre nell’incubo sovietico occorreva soltanto acquistare un pizzico d’ideologia per ricevere in premio un litro di vodka.

Nelle scuole superiori l’egemonia “neofascista”, ben organizzata nella “Giovane Italia”, era totale e indiscussa. Erano in tanti (molti poi transumati a sinistra che a sentirli si tratterebbe non d’iscritti all’anagrafe ma di medagliati pionieri dell’Anpi) che credevano al manganello e al bigliardino per cui non fu facile per un ragazzo rosso della Fgci, Nando, mettersi a contrastare la capillare presenza e la generalizzata influenza dei missini.

Nando ci sapeva fare, lavorava duro, stava ad ascoltare, riusciva a imporsi. Ogni mattina arrivava in città, se non sbaglio con una R4, perennemente in divisa da sessantottino. La sua militanza brillante portava a esempio il non fingersi nel personaggio romantico del comunista quanto invece di essere tale.

Nando sposò Marisa, una professoressa speciale, preparatissima e anticonformista, catanzarese, che portò in quel lugubre liceo, dominato da certe avare cariatidi ammuffite, una moderna concezione dell’insegnamento delle materie classiche.

Tra Nando e il movimento studentesco l’idillio fu crescente. Anche se era prevedibile la data di scadenza. Esattamente fino a quando non ci sbatterono pesatemente tutti fuori dalla sala riunioni di via Panella. Addio teste di Marx, Lenin e Ho Chi Min, Che Guevara. Di lui poi non se ne seppe più nulla. D’altra parte erano quelli gli anni migliori delle congiure di partito per far secchi avversari e militanti non graditi. Fu in quel frangente di delusione e scoramento che si ruppe il legame comunitario.

L’età dell’innocenza stava finendo. Toccava decidere dove e con chi andare, quale strada imboccare. Ripiegare le belle bandiere dentro il solco della rivoluzione compiuta e del realismo socialista o assecondare il vento in poppa dell’esistenzialismo “gauchista” sulle rive del Mediterraneo?

Noi eravamo testardi, ridicoli e pieni di rabbia, ma anche con una imbarazzata consapevolezza di noi stessi. Per ragazzi, accattoni e giovani boy scout era da poco passato il tempo dei film girati a Crotone da Pasolini.

C’era in giro tutta l’aria sensuale di un'altra grande e più magnetica novità. Stavano costruendo con lo stesso tufo degli antichi templi il mega villaggio per vacanze “Valtur”, unico investimento della Fiat in Calabria. Forse si avvicinava l’ora dell’avvento del turismo d’élite, un radicale cambio di costumi, la spasmodica attesa di un altro tipo di rivoluzione, quella sessuale.

Paolo arrivava ogni estate da Roma e faceva l’istruttore di vela. Comprò una piccola “paranza” denominata “il Milione” per via di una pesca miracolosa che valse tanto ai pescatori di Cirò. A lume di candela tra nasse e fil di seta si parlava del movimento studentesco romano. Le nostre al racconto parevano lotte nel cortile di campagna della masseria di Barracco e il ’68 una grande saga di paese, una festa della Madonna senza i paramenti sacri.

Annamaria, che aveva fatto studi molto seri e poi divenne una nota antropologa antirazzista, tra le più brave in Europa e non solo, abitava in fitto un solare appartamento in via Poggioreale, in quel palazzo con i disegni di caccia traciati sul muro che affacciava sul mare.

Sulle pareti di quelle stanze che profumavano di libri e ciclostile, sogni e libero amore, lotte di massa e militanza politica spiccavano le copie autentiche, in fresca e spumeggiante serigrafia rossa, di bellissime ‘affichès’ del maggio francese: “la lutte continue”; “Ce n’est qu’un début, continuon le combat”.

L’immaginazione poteva andare finalmente al potere. Non solo tra piazze, scuole e università, anche qui, tra la sperduta gente del vecchio rione marina. Al tabacchino di via Cristoforo Colombo, quello del padre di Michele, i maoisti fumavano Sax, Esportazioni e Nazionali Semplici.

Stava per arrivare in sede un mito del nuovo cinema italiano. Lou Castel, sobrio e ricco, minuto e scandinavo, filmico e lunare aveva dato tutto al partito di Aldo Brandilari dopo aver interpretato “San Francesco” di Liliana Cavani e “Grazie Zia” di Salvatore Samperi con Lisa Gastoni. La sua apparizione fu un raggio d’irrealtà in un’umile scena del sud.

Fu lui, l'indimenticabile compagno Lou Castel che mi fece dono di un intonso “Libretto Rosso”.

Ed è da quando avevo quindici anni che lo conservo accuratamente. Lo sfoglio, lo attraverso con lo sguardo come fosse uno specchio di favole. Talvolta lo soppeso e lo apprezzo per quello che è: una piccola, preziosa reliquia di quei giorni speciali che sconvolsero l’Europa e il Paese.