Altro che Gladio. Quando Giorgio Spini ci raccontò le memorie di un giovine Fiorentino sulle strade della Liberazione

Scrivo subito che quel giorno fu davvero speciale come il Premio Crotone Storia&Memoria. Premio che, insieme con gli amici Peppe Poerio e Pino Napoli, avevo proposto di consegnare al grande storico italiano, scegliendo il suo testo tra i migliori di quell’anno 2003. Fu davvero così, come ce lo raccontò ad occhi asciutti in un luminoso primo maggio di sole e Sud il sottotenente “Spinellino”, al secolo il grande storico fiorentino Giorgio Spini, che udimmo anche noi il vento fischiare e la bufera urlare, andando con lui a conquistare giustizia e libertà per quell’Italia distrutta dalla tragica sventura fascista.


Vito Barresi | Cambio Quotidiano Social

Il titolo era l’esatto specchio di una storia di vita, un account dell’autore di un’ampia e consolidata produzione di ricerche e saggi storici perchè “La strada della Liberazione”, stampato da Claudiana, fu il riuscito autoritratto di un giovane dai capelli rossi che non si votò ai santi né agli eroi per superare la deprimente stupidità di un regime ottuso e posticcio che, largheggiando tra retorica e ignoranza, offese la più gloriosa tradizione culturale del nostro umanesimo.

E poi che tipo quello Spinellino, sempre più avanti a tutti, persino al figlio Valdo che allora era la stella in ascesa del nuovo socialismo italiano, forse antesignano suo malgrado, del successivo dirompente apparire sulla scena politica nazionale del suo concittadino ‘guelfo’ Matteo Renzi.

Spini il ‘vecchio’, un po’ alla Plinio dell’antica Roma, venne letteralmente scortato dai suoi ‘fratelli’ evangelici pentecostali di Caccuri, portato fin dal primo pomeriggio a officiare la lettura biblica nella Chiesa protestante di quel piccolo paese di collina.

E lì, il grande storico, uno storico che stava alla pari se non più con il baronetto marxista sir Erich Hobsbawam, divenne il più umile, più semplice e più sapiente testimone della pagina cristiana, pronto a spezzare il sermone davanti al popolo di quella appartata e piccola comunità agricola.

Un libro in cui si traccia il profilo di una vita coerente, sullo sfondo della guerriglia dei patrioti partigiani, l’appassionato diario in presa diretta d’indimenticabili giorni vissuti dalla parte giusta, fianco a fianco con le truppe anglo-americane, quest’ultimi descritti senza speciosità ideologiche come un esercito di gente seria, operai, farmer, cittadini onesti e pacifici venuti a combattere per gli ‘aitais’ come ci chiamavano in inglese, lasciando gli Stati Uniti laboriosi, sereni, stupendamente civili.

Con la calibratura di un lungometraggio, lo storico allo specchio della memoria passò in rassegna le immagini di un avventuroso viaggio ‘on the road’ sulla jeep del capitano Sasson, abbordando i sentieri di un paesaggio italiano sventrato e devastato da un immane scontro fratricida.

Su un fondale di trame robuste in molte pagine sussultano passi salienti e brani evocativi di fresche emozioni morali, si aprono squarci cinematografici di notevole suggestione: trovarsi una notte faccia a faccia con lo sguardo soavemente enigmatico della Primavera del Botticelli, nascosta in un castello delle campagne aretine con altri quadri degli Uffizi per impedire le ruberie degli invasori tedeschi; varcare le mura medieviste di Cortona e San Casciano, deserte d’umanità ma pregne d’entusiasmo democratico e popolare; provare assoluta l’emozione della liberazione di Firenze con la Gazzella Rossa degli inglesi, correndo spasmodicamente innamorato alla ricerca di quel bacio lasciato a metà sulle labbra della sua ragazzina, prima di andare al Fronte; rivedere nella luce alpina della Conca del Pra, lassù in Val Pellice, il lancio clandestino di un serafico amico paracadutista antifascista che si unisce alla Resistenza piemontese; ripensare al debito spirituale in tempi di formazione giovanile verso quel mitico e solitario intellettuale, araldo del revivalismo protestante italiano, il calabrese Giuseppe Gangale di cui riecheggia struggente la poesia profetica in morte di Piero Gobetti; rimembrare l’incontro in quel di Bari con il giovane Carlo Azelio Ciampi con cui si condivise l’esperienza politica del Partito d’Azione, ove il laburismo si sognò come progetto di società aperta in chiave europea e non conquista del potere con mende staliniste.

Si chiese Spini cosa poteva capitare di più della guerra ad una generazione che aveva avuto sempre paura. La galera? Il confino?

Proprio da quella dismisura proruppe il disincanto verso il fascismo, la più travagliata e controversa presa di coscienza di una realtà sociale e istituzionale che più non avrebbe concesso né tregue nè fughe dalla libertà. Sdegnando la scorciatoia d’equivoci richiami alla riconciliazione con chi tradì l’Italia, registreremo saliente l’esortazione non già a revisionare ma a purificare, proprio nell’autenticità gentile del significato inglese del verbo ‘purify’, la rilettura storiografica della guerra di Liberazione, incisa in una prospettiva inedita di riforma della società italiana e non di lotta per la supremazia ideologica.

Così il testo sembra voler suggerire inquadrare l’intero ‘film-combat’ della Resistenza nella più verosimile e concreta dimensione della vita quotidiana delle nostre popolazioni regionali: un sud che attendeva l’arrivo dei cugini ‘immericani’, perché oriundi dell’ondata migratoria che salassò i latifondi ottocenteschi; un centro dove il clero aprì coraggiosamente le sagrestie ai partigiani senza sbarrare i sagrati ai papaveri in fuga del vecchio regime; un nord in cui le brigate e le bande s’impiantano non già per scelte di partito quanto per tutto un vissuto d’armi, eserciti e confini.

Una siffatta, efficace ricostruzione di anni che ancora estenuano e contrastano gli storici deve probabilmente tanto allo straordinario intreccio di culture e influssi testimoniato in Spini da quel suo vedere il mondo dalla rocca valdese, dal costante rifiuto liberal protestante di ogni stucchevole nostalgia, da un senso della misura di chiara ascendenza ‘british’, dall’amore profondo per l’affresco pittorico toscano, i cui colori vibranti, gli accenti trecenteschi, le figure stagliate, i solidi ritratti, riuscì a trasfondere lungo il corso di una vita di storico militante. Come rosso senese nelle pagine dei suoi libri.