Fabrizio De Andrè. Storia di un Impiegato che per le Idee aveva fatto il ‘68

Era il sessantotto dello scorso secolo quando sembrava bello “morire per delle idee”. Così cantava George Brassens, e in italiano Fabrizio De Andrè. Morire, sì, ma per quali idee? Riascoltata alla distanza quell’amara mormorazione dello “chansonnier” francese cos’altro era se non un invito sommesso a maneggiare con cautela il fuoco della gioventù, a sorvegliare insonni la fragilità dei cuori in rivolta per non ritrovarsi fuori dal gioco? Poi vennero gli anni settanta. Fu il tempo in cui accadde, purtroppo a tanti, di forzare il passo e morire per delle idee che il giorno dopo non ebbero più corso, restando prigionieri di un sortilegio e una menzogna, sancite in una condanna, l’amara verità “che l’idea giusta era un’altra”. Un impiegato ascolta, cinque anni dopo, una canzone del maggio francese 1968. E' una ballata di lotta, tra il talk e la poesia: memoria degli avvenimenti accaduti durante la rivolta promossa e teatralizzata dagli studenti...” Questo, come annotava nel libretto del long play Roberto Dané, era il contesto in cui si rimane coinvolti, l'atmosfera musicale e le vibrazioni di un concept album più che mai monumentale, “Storia di un impiegato” inciso nel 1973. Che quasi cinquanta anni dopo sprigiona ancora sensazioni di freschezza musicale, tensione lirica, passione e attualità.


Vito Barresi | Cambio Quotidiano Social

A quanti hanno attraversano indenni i tempestosi decenni che dal Sessanta vanno fino agli anni Ottanta, resta almeno la piccola consolazione (e non è poco) di poter ricordare oggi, a bandiere ideologiche ammainate, non già gli inni neri e i canti rossi, bensì una poetica della contestazione più che politica autenticamente umana.

Le parole del cantante e poeta restano indimenticabili: “La "Storia di un impiegato" l'abbiamo scritta, io, Bentivoglio, Piovani, in un anno e mezzo tormentatissimo e quando è uscita volevo bruciare il disco. Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile, so di non essere riuscito a spiegarmi.”

Comunque la si giudichi l’attualità sociale, politica e culturale contemporanea del Paese risulta profondamente segnata dalle dinamiche e dalla storia, ancora non scritte, di quei confusi anni. Ripassati alla moviola oggi sarebbero, al vaglio critico, definibili come “gli strani giorni di una generazione”, l'epoca tradita della nazione giovane italiana.

Anni dell’Orda d’oro per dirla con Balestrino e Primo Moroni, poi tramutati improvvisamente da oro in “anni di piombo”, per riprendere una straordinaria suggestione del cinema tedesco.

Ecco, dalla congerie di pulsioni e frustrazioni, passioni e velleità, verità e menzogne, brutalità e cinismo, cortei e funerali di quei brevi anni di candore e terrorismi, ci sono dei momenti in cui capita di risentire l’eco, d’improvviso, il timbro o la strofa, la nota o il frammento di una lunga canzone d’autore, una colonna sonora che rimbalza a ritroso.

Note che ci ricordano che non a tutti riuscì di “cantarci” in pensieri e parole, perché il privilegio fu solo di pochi artisti che, parafrasando Dario Fo, furono capaci di “ragionarci” dentro. E ancora molti di loro continuano a farlo.

Fabrizio De Andrè, il menestrello che ci ha attraversato, il cantore di storie divenute memorialistica, a tal punto da sedimentarsi nel profondo dell’es generazionale, e' parte integrante delle mappe cognitive e culturali di tutto un pezzo di cultura italiana.

Molto, per non dire tutto, dello spirito del '68 si ritrova ancora nei suoi dischi, che se si riascoltano sul filo di un ragionamento asciutto e criticamente speculare, assegnano a De Andrè il primato di rappresentare l’espressione più schietta di un’intera epoca della canzone italiana di quegli anni, fortemente segnata dal conflitto sociale e dal disagio esistenziale delle nuove generazioni.

Il cantautore genovese, fin dal suo esordio, ha posto al centro delle sue ballate la grande contraddizione di una realtà moderna, forse la prima percezione diffusa degli effetti della società di massa, in grado di movimentare grandi mezzi tecnici, raggiungere persino la luna (che per Jannacci restava una lampadina) ma incapace di una comunicazione calda, autentica, fondata sui i segni radicali della vita: l’amore, il senso, la tenerezza.

Il mondo, prigioniero com’era ed è ancora di piccole ipocrisie quotidiane e giganteschi tranelli di sistema, solo ai margini può trovare un’episodica, ma è quanto basta, occasione di redenzione.

Tuttavia, per quanto i brani di De Andrè siano convenzionalmente classificati nel genere discografico dei “concept-disc”, protesi a trasmettere un messaggio unitario ed omogeneo, resta il fatto che l’intento del cantante è sempre rimasto quello di non deludere i propri ammiratori, evitando ogni autoreferenziale definizione di poeta o letterato.

Non si fa progresso se prevalgono le esitazioni, non tanto dal punto di vista della valutazione politica, quanto nell’attesa e non soddisfatta tensione di una più incisiva comparazione con la storia e l’evoluzione della musica pop italiana, con il largo catalogo di cantautori che pure hanno fatto da cornice e talvolta da spalla al musicista ligure.

Utile sarà ricollocare, oltre la chiave del revival, De Andrè nel campo di quell’incessante scambio e prestito tra il registro del folk e quello del pop, forzando (falsificandolo o validandolo) il postulato per cui “la cultura popolare non è la cultura del sociale”.

Per altro ritengo feconda l’intuizione di leggere l’intera produzione di De Andrè come un importante momento di passaggio verso altre forme espressive, a cavallo tra poesia e narrativa. A parer mio è il sentimento di liricità che in De Andre lega intimamente canzone e poesia.

E da qui scorgo due ulteriori piste, suscettibili di più accurato scandaglio e di più raffinata incisione: il rapporto tra canzone d’autore e canone poetico medioevale, sia stilnovista che evangelico; la contaminazione tra musica rock, intesa in generale come cultura di genere, e letteratura mediterranea.

Poi gli abiti mentali e i vestiti alla moda di un impiegato e non so che in De Andre non entra nel vissuto filosofico ma soltanto nella storia quotidiana e tumultuosa, libertaria e sofferta, di quegli anni splendidi di ribellione, pace, amore, gioia e rivoluzione.