Festa del Primo Maggio. Il nostro Lavoro si chiama Domani

Il Primo Maggio a Mezzogiorno non è un pranzo di gala. Mai come in questa data, ormai poco distante dagli anni Venti che si spera ma poi non tanto saranno ruggenti come quelli dello scorso secolo, non si può far presto a dire Festa del lavoro. Perché in Italia tutto si è fatto troppo tardi rispetto ai tempi del mondo e del mercato, perché si è perso e si perde molto tempo da parte di chi gioca al proprio successo personale, in tutti i campi sommamente in quello della politica che resta il cattivo esempio nazionale, senza tenere in conto gli interessi dell'intero sistema comune, culturale e sociale, del Paese.



Vito Barresi

Cambio Quotidiano Social


Qui a Mezzogiorno dove il lavoro non c’è, lavoro e disoccupazione sono diventati una parte del fare umano assolutamente irriconoscibile rispetto al passato.


La mutazione antropologica è stata impressionante. Se non c'è stata poco ci mancava che fosse guerra di religione, con tanto di abbattimento dei simboli del passato, tra cui ciminiere, masserie agricole, fabbriche dismesse completamente smontate e devastate.


Sovviene il simbolo dell'archeologia industriale descritto mirabilmente nel suo bellissimo romanzo da Ermanno Rea, La Dismissione, a Bagnoli, il Centro Siderurgico tra i più grandi d'Europa.


Vincenzo Buonocore, operaio dell'Ilva, semplice manovale divenuto tecnico specializzato alle Colate continue. Lui avrà il compito di smontare il suo reparto, venduto ai cinesi.


Un colpo al cuore a cui risponde in modo imprevedibile, decidendo di compiere la dismissione "bullone per bullone", come un "capolavoro", la testimonianza del proprio genio operaio.


Il lavoro al singolare non c’è più. Eppure, come bisognerebbe, si dovrebbe cominciare a definire i lavori al plurale.


Macchina Mente Mani sono un innesto, una linea produttiva straordinariamente potente. Che laddove non si concretizzano in fatto, cioè tradursi in lavoro/merce/denaro, salario, stipendio o reddito, in questo sistema antiquato, possono al contrario portare alla paralisi della società, allo sfaldamento della coesione, all’annientamento etico della persona e della cittadinanza attiva.


Amo le storie della classe operaia. Mi sento un labour e un working per scelta di vita sociale e intellettuale. E’ questa la mia scena, questo il mio mondo. Per cui combatto contro i nuovi scorci di miseria sociale, i diaframmi di esclusione e diseguaglianza di classe, che hanno sagome e strutture che rimandano all’antica scenografia del feudalesimo e del medioevo.


Sfruttamento, alienazione, monetizzazione del rischio e della salute, lavoro senza sfondi di crescita famigliare, deprezzamento al di sotto del valore di una merce dell’apporto operaio, artistico, artigianale, fisico e intellettuale, di quel che furono e saranno le caratteristiche distintive dell’uomo faber. Insomma nell’uno e nell’altro caso una forza disumanizzante a cui nessuno, né i disoccupati (esclusi) nè gli occupati (garantiti) riesce a porre freno.


Il Primo maggio non è neanche un picnic campestre che ci rimanda alle belle immagine espressioniste e realiste della storia del movimento operaio. Purtroppo la cronaca è quella che tutti noi conosciamo. Il quadro del mercato del lavoro è profondamente mutato, anzi per molti aspetti desertificato.


Non ci sono più le fabbriche, non riusciamo ancora ad allestire una diversa filiera produttiva basata su intelligenza, conoscenza, arte, qualità del prodotto e della produzione. Eppure dal punto di vista applicativo e innovativo possiamo rinnovare e persino superare la logica e la visione capitalistica del lavoro.


Tuttavia, a parte le previsioni catastrofistiche dei cultori dell’intelligenza artificiale e dell’automazione assoluta il lavoro ha un immenso, radioso futuro. Nonostante tutto. Perché, in questo, aveva ragione Di Vittorio quando affermava che il nostro domani si chiama più che mai lavoro.


O, per dirla con Paul Lafargue, genero di Karl Marx, l’Ozio inteso come Lavoro Liberato.