Giovane smilzo, in jeans e maglioncino stazzonato, le guance incavate e l’occhio un pò febbrile, protervo e tenero come quello di tanti suoi coetanei delle stesse origini e delle stesse inquietudini politiche e culturali. Foto tessera di gioventù ribelle quella di Carlo Rivolta che certo non era quella scritta magari per il testo di una canzone di protesta ermetica e triste di qualche coetaneo e amico cantautore romano che si esibiva anche di giorno sul palcoscenico basso del Folk Studio di via Garibaldi in Trastevere. Ma di sicuro la memoria autenticata, vidimata e quasi in traccia audio, dall’indimenticabile direttore di Radio Tre in quegli anni, Enzo Forcella, che omaggiava con pochi tratti la figura e l’azione politica, culturale e giornalistica di un ragazzo 'calabrese' protagonista dello straordinario e tumultuoso decennio di vita italiana che va dalle lotte universitarie del 1968 fino ai cupi anni del 1977 dell’autonomia e della lotta armata.
Vito Barresi | Cambio Quotidiano Social
Carlo Rivolta, nato a Roma da famiglia di origini calabresi, svolse la sua carriera giornalistica nella capitale, passando da Paese Sera a La Repubblica, fino a Lotta Continua di Enrico Deaglio e Adriano Sofri.
Come annotava Giacomo Mancini che lo conobbe nel 1970 quando era segretario nazionale del PSI per il tramite della madre “la dolce e cara Isabella, una donna legata alle lotte democratiche in quella terra difficile che è la Calabria”, dopo un’attiva e coinvolgente partecipazione al ‘68 capitolino, Rivolta approdava all’ufficio stampa del partito, la cui direzione in Via del Corso era un via vai di giovani esuli portoghesi e greci, a cui i socialisti davano rifugio, solidarietà ed aiuto per continuare la loro resistenza e lotta per la conquista della democrazia cancellata dalle dittature di Salazar e dei colonnelli.
Un cronista alla ricerca della vera identità della sua stessa generazione. Oltre le ideologie totalitarie che erano apparse (errando) come il più venefico tra gli antidoti al conservatorismo sociale del passato, Carlo Rivolta nella sua fulminante quanto appassionante esperienza umana e professionale, lega il ‘68 a se stesso come un momento vitale, uno stato nascente che si staglia sul proprio volto nella sua molteplicità espressiva, comunicativa, semantica e persino linguistica.
Quasi una maschera di quel teatro totale e a volte totalizzante che fu il palcoscenico offerto a movimenti, agitazioni, occupazioni, frazioni armate, disarmate e non violente, sette, gruppuscoli e comuni che si racchiusero ben presto nelle tre facce più estreme di quel magma storico, un mob culturale e sociale, avrebbe scritto forse Hobsbawm, e cioè le subculture della droga, suddivise tra pesanti e leggere, il carcere come momento di liberazione radicale e profondo che aveva sbarre da divellere non solo nell'America delle Pantere Nere ma in ogni parte della vecchia Europa, e infine, il terrorismo, che andrebbe rivisitato e ridiscusso come forma aggiornata di una lucida e vitale paranoia, un nichilismo esistenziale del post moderno, la più temibile e insidiosa armata contro la coesione sociale e l’identità della persona, dell’uomo civile e la società europea e occidentale.
L’insieme contraddittorio, il coacervo di passioni politiche ed emozioni libertarie concentrati nel 1968 risaltarono sempre e in prima pagina nella vita di Carlo Rivolta. Scrive, racconta, polemizza, si schiera, senza mai nascondere le sue appartenenze anche fugaci a gruppi e movimenti prendendosi ogni volta insulti e minacce, accuse e anatemi, delatore, spia e traditore tanto che qualcuno lo definì un martire per vocazione o un autolesionista.
Domande a cui rispose con un ‘forse semplicemente un giornalista e un garantista. Uno che, nonostante tutto, continua a credere nel proprio mestiere, nella necessità di raccontare notizie”.
Emarginazione sociale, nuove nevrosi contemporanee, confronto con i discostamenti più evidenti dalla personalità, frammisti a sconfitte e disillusioni determinate dalla prassi insopportabile e spesso opprimente dei gruppetti extraparlamentari, incapaci di assurgere, e non solo per loro colpa, a vera ‘nuova sinistra’ della vita politica italiana.
Ora, anche grazie agli articoli di Carlo Rivolta, gli stessi che sono diventati veri e propri documenti di un archivio storico di importanza centrale nella ricostruzione di quel periodo, particolarmente preziosi come fonti dirette e di osservazione partecipante, si potrà dire al di là degli ideologismi e delle contrapposizioni, che molti militarono con eccessivo entusiasmo, acriticamente e con scarso equilibrio politico, finendo, con impressionante statistica, essi stessi vittime dell'intolleranza e dell'eccesso, tanto che la conclusione del movimento sessantottino non fu affatto coerente né tanto meno felice rispetto alle sue promettenti premesse.
Carlo Rivolta viaggio per intero lungo l'orbita della contestazione, attraversandone gli assi nei suoi furori e nelle sue ingenuità, cogliendone i tanti lanci coraggiosi e stimolanti verso il futuro, ma anche denunciandone a viso aperto i settarismi e le rinchiudere, la retorica, raccogliendo nel suo giornalismo nuovi impulsi, tematiche, approfondimenti che furono risorse sorgive per l'innovazione comunicativa di un vero e proprio new journalism italiano.
Il suo ricordo riposa in pace nel piccolo cimitero di Trebisacce, un comune calabrese nel bel mezzo del Golfo di Taranto, che ne accolse le spoglie all'anagrafe e ne custodisce memoria del passaggio in terra nella cappella di famiglia dei Chidichimo.