Il miracolo del pastorello albanese figlio del regista Gianni Amelio

29 maggio 2018, 15:12 100inWeb | di Vito Barresi

Non proprio come in un film bensì una fiaba, un sogno, una visione cadenzata e ripartita in densi ricordi, storie, resoconti e fabule. Contesto e clima del romanzo di Gianni Amelio, Padre Quotidiano, sono un omaggio alla paternità scelta e consapevole spezzata come azzimo con tocchi lirici, talvolta struggenti sullo sfondo di scene e paesaggi alla Pietro Germi, una prosa mai accademica ma molto evocativa che riecheggia vissuti antichi, a tratti verdiani, ottocenteschi, risorgimentali. Ancora una volta Amelio dona se stesso a quel cinema d’umanità e sentimenti che sa tramutarsi tra set e riprese in un teatro senza posa di solidarietà e affetti. Pagine di generosità sorgiva e mai contraddittoria, ma anche una piccola grande chanson alle famiglie nuove del mondo d’oggi che hanno il merito di sottolineare l’immensa attualità della dura lotta per la vita e per il riconoscimento della dignità dei padri e dei figli, alla ricerca del proprio futuro sulle difficilissime strade di questa nostra epoca.


Vito Barresi | Cambio Quotidiano Social

Nuovi padri e nuovi figli alla Turgenev. Si potrebbe cominciare inquadrando un foglio bianco in dissolvenza su cui si staglia con un 'lettering' da libro Cuore soltanto una parola strana e curiosa scritta con l’articolo: ‘il Regissore”.

Forse un neologismo glottologico, coniato in campo linguistico skipetaro per due cose insieme, un titolo e uno status, il giusto montaggio tra i termini di regista e professore. Il Regissore è il vocabolo slang che identificò Gianni Amelio, cineasta italiano famoso nel mondo, quando girò le scene sul set reale e naif dell’Albania post comunista, del suo splendido affresco cinematografico Lamerica.

Quale strada poi abbia fatto Amelio attraversando il misterioso territorio dell’Albania solo lui lo sa. Sì, perché il suo è stato un viaggio non solo nell’arcadia e nella retorica del paesaggio ma dentro la mappa ancora del tutto sconosciuta e inconscia di un italiano come lui che l’emigrazione, la discriminazione, la timidezza di essere se stessi se la porta ancora dentro lo sguardo, in quei suoi occhi che si socchiudono sulla realtà proprio come fossero posati delicatamente sul bulbo oculare della camera movie.

Il pastorello di Koplin di Sopra che diventerà il figlio di Amelio è la testimonianza che dai giorni convulsi della liberazione del comunismo, per gli albanesi non vi furono solo crudeltà e amarezze ma anche una moltitudine di risvolti di grazia, di cui non è esercitazione sprecata fare memoria come in questo libro.

Non per via invisibile questo libretto liberatorio di Amelio è una cronaca minuziosa della concreta solidarietà di tantissime persone sconosciute che tra Tirana e Valona, tra Skopie e Durazzo, seppero dare anche un briciolo di necessaria speranza a un popolo sbandato, disorientato, ritrovatosi protagonista di uno straordinario stato nascente basato sui due pilastri strutturali della dimensione umana, l’uno emotivo e l’altro materiale, la libertà e la povertà, libertà e necessità, tra idea suprema e urgenza materiale anzi dialetticamente materialistica.

In mancanza e per ovvie ragioni di un racconto dell’io adolescenziale del pastorello ArbenEthenZekaj, tutto il plot narrativo si concentra sul fragilissimo dialogo, lo stesso da cui emerge un più robusto rapporto di comprensione e di complicità, tra una paternità culturalmente raffinata, evoluta e matura e un ragazzo con i capelli lunghi, ribelle e docile, per altro mai intuito come nel mito del buon selvaggio.

Per Amelio non sarà stato facile ricondurre a nuova dimensione sentimentale una paternità culturale e strutturata da tramutare in un affetto inedito, né letterario né filosofico, in ragione temperata e autorevole, in un ruolo sociale che va oltre gli impulsi, una paternità al di là della parentela naturale e morganatica, non basata su vincoli di subalternità biologica quanto, al contrario, sulle ‘affinità elettive’ tra un tipo di nuovo padre e di nuovo figlio.

Se l’Albania non è la Svizzera delle casseforti d’Europa almeno ha il primato di essere il forziere di storie di vita, valori umani, ampiamente svelato e ben narrato in questo romanzo, che attraversa il giacimento più grande di relazionalità esistente nel vecchio continente sul finire del secolo scorso.

Una miniera straordinaria di gioventù e vitalità, la stessa che fa da sfondo e telaio al romanzo in 57 scene in cui il cineasta italiano racconta la storia di un figlio trovato e scelto con onestà e tenacia.

Qui ritrova uno scampolo di mondo contadino, quasi le lucciole pasoliniane scomparse, anche in termini di eros, omosessualità meridiana, scardinando il vaso di pandora dei pregiudizi e delle idee sbagliare che sono radicate e stratificate in tema di corretto confronto tra paternità e omosessualità.

Su questo piano sequenza l’innovazione di Amelio è veramente unica, autenticamente paradigmatica.

Perchè in fondo, per restare sul tema di una comparazione tra i due artisti, nella sua esperienza di omosessualità meridiana, lo stesso Pasolini non osò mai infrangere il tabù ancestrale e mosaico del padre naturale e dei suoi tanti stereotipi mitologici e biblici, rifiutando violentemente ogni tipo di adozione di altri, a cui preferiva legarsi non per slancio di filialità o paternità ma esclusivamente per passione momentanea, interesse di gruppo, istinto di fratria e persino contro dimensione della gang e del primitivismo senza regole, se non quelli della forza.

Il nocciolo di questo diario romanzo di un padre di nome Amelio sta permanentemente sospeso tra ciò che lega e ciò che separa l’abbandono e l’adozione, come un lieve, poetico, delicato e irruento sospiro che rispecchia in pagina mai pietà superficiale ma un ‘regard’ lucido di universale dignità.

Quasi l’eco del salmo che soffia nel vento “chi è l’uomo perché te ne ricordi, e il figlio dell’uomo perché ti prendi cura di lui? L’hai fatto poco meno degli angeli...”