L’Ultima Spiaggia di Maurizio Perinetti l’ingegnere nucleare ucciso dalla ‘ndrangheta di Isola Capo Rizzuto

3 agosto 2018, 18:38 100inWeb | di Vito Barresi

Non una via, non una piazza, neanche una targa commemorativa che accenni all’episodio, alla figura, al monito contro la violenza della ’ndrangheta che assassinava turisti d’estate. Pur sia un qualche accenno che rimandi alla vita stroncata di un uomo ucciso su una spiaggia solitaria, in circostanze rimaste subito misteriosamente contraddittorie, l’assassinio dell’ingegnere nucleare Maurizio Perinetti, 34 anni, avvenuto in una tarda serata di sabato 18 agosto 1973, in agro di Selene, comune di Isola di Capo Rizzuto. Per quanto turista per caso, un campeggiatore fai da te, l’ingegner Perinetti non era persona qualsiasi, bensì un qualificato, stimato tecnico della divisione sicurezza e controlli del Cnen, Comitato nazionale per l'energia nucleare. L’Ente per la promozione dello sviluppo dell'energia nucleare per usi civili in Italia aveva portato il Paese, con una progettazione originale e innovativa all’avanguardia nella tecnologia e ricerca applicata in materia di sviluppo nucleare, scalando i vertici della competizione mondiale degli anni ‘60. La conquista di quella posizione aveva suscitato urti e avversità nel contesto internazionale delle potenze nucleari a tal punto che il Cnen, dopo che nel 1963, il suo presidente Felice Ippolito, fu al centro di un controverso e dibattuto scandalo, tale che dopo venne fortemente ridimensionato. Perinetti come Enrico Mattei? Beh, non proprio,"Elementary, my dear Watson", non esattamente, ovviamente. Anche se la comparazione potrebbe servire da grimaldello per suscitare qualche utile interesse nel famoso magistrato di Berlino. E magari recuperare i faldoni, i fascicoli di questa strana e fin troppo apparentemente compiuta storia. Quella di un cervello, un talento, una promessa di intelligenza e genio, come ribadivano i suoi colleghi e superiori, apprezzandone le doti, con una carriera foriera di successi. Che certo non poteva finire banalmente vittima di una banda di sconclusionati delinquenti calabresi, molto più ipoteticamente pilotati da un’oscura regia calabro-romana, rimasta in questi lunghissimi cinquant’anni, ancora nell’ombra più oscura e inquietante. Fatti che forse adesso, per dirla alla Sciascia e non alla Corrado Alvaro, potrebbero anche indurre qualche scrupoloso magistrato pensoso e attento alla genealogia del male che affligge questa regione a riaprire un ‘cold case’ sul delitto Perinetti.


Vito Barresi | Cambio Quotidiano Social

Era l’estate 1973 quando l’ingegner Perinetti, davanti alla moglie in attesa e al suo piccolo figliuolo, venne ucciso da uno dei cinque proiettili sparati contro di lui a bruciapelo, colpito al cuore da un solo colpo di pistola.

Nell’attimo in cui il piombo messaggero di morte lo lasciava riverso a terra, le onde del mare in cui si specchiano le vestige del Castello Aragonese, lo stesso su cui i Saraceni issarono la bandiera della Mezza Luna islamica, più o meno vicino alla caletta dove aveva alzato la sua tenda, lambivano, ignare, assenti, perpetue, indifferenti, la riva su cui, scorcio in tragedia greca, la sua donna raccolse il corpo dell’amato, chiedendo ad altri del luogo inutilmente aiuto.

Maurizio e Rosalinda dovevano ritornare a Roma il 20 agosto. Chiudere con un happy end la loro vacanza in Calabria, a quel tempo statisticamente in testa al turismo dei campeggiatori, tanti erano i camping che si aprivano in quella zona.

Il racconto di quella tragica vacanza, invece, fa parte dell’immenso archivio di delitti di ‘ndrangheta, caduti nel numero nero della rimozione, in breve dimenticati, forse anche per cancellare almeno in parte il ricordo di cronaca di una delle più brutte pagine della malavita ‘ndranghetista, allora in fase di selvaggia accumulazione, che spadroneggiava nel nuovo eldorado turistico del Sud, in quel lembo del latifondo crotonese improvvisamente trasformato da scenario agricolo tradizionale in palcoscenico turistico, energetico, petro-metanifero, ambientale, marino biologico, ma anche in un centro nevralgico, il nodo territoriale sinteticamente criminale della Mafia.

All’Ospedale di Crotone, il dottor Gaetano Campana eseguì l’autopsia con precisione e celerità, nel mentre di pari passo veniva effettuata la ricostruzione dei fatti, che all’evidenza dei primi riscontri per quanto complicata, anomala, insomma strana, veniva via via semplificata dagli inquirenti, previo passaggi rapidi e riduttivi, puntati a eliminare contraddizioni e incongruenze.

Un procedimento di semplificazione che portò all’arresto immediato di due manovali del posto accusati di essere gli esecutori materiali dell’omicidio.

Nonostante nessuno dei testimoni oculari avesse indicato con certezza il numero delle persone che si erano avvicinate nella tarda serata di sabato alle tende dove si trovavano l’ingegnere e i suoi amici, il successivo lunedì, il magistrato convalidò il fermo di tre persone arrestate domenica e cioè di un rappresentante di commercio di 27 anni e due manovali, di 23 e 19 anni, tutti di Isola Capo Rizzuto, accusati di omicidio per rapina, nel mentre restavano e resteranno senza nome altri due complici.

Perchè sul delitto Perinetti quel che si ritrova interrogando gli anziani del paese, scavando a ritroso nelle memorie della storia del turismo moderno a Isola Capo Rizzuto, è sempre un niente o un tutto con più o meno sempre il suo contrario, un mistero rimasto definitivamente senza verità, relegato nel limbo dell’incerto, del confuso, del segreto persino di stato.

Si disse subito ‘omicidio per rapina’, forse precipitosamente. Tralasciando altre piste, indizi, dettagli, persino prove. Un’ora e mezza prima del sanguinoso episodio, l’ingegner Perinetti e i suoi amici aveva notato un vascello misterioso, un battello fantasma che veleggiava privo di bandiera, aggirandosi sotto costa.

Lui stesso avrebbe chiesto ai marinai a bordo dell’ignoto natante, anche se non si sa con quali mezzi comunicasse, se alla voce o con una radio ricetrasmittente, di farsi riconoscere, senza ottenere alcuna risposta. La barca era poi scomparsa e poi riapparsa intorno alle 23, mezzora prima che dai sentieri di campagna sbucassero gli sconosciuti che raggiunsero lo spiazzo dove Perinetti e i suoi amici erano accampati.

E sostenibile pensare che gli sconosciuti volessero soltanto impedire a Perinetti e agli altri di allontanarsi dalla zona, ipotizzando un traffico di contrabbando nella zona, che spiegherebbe anche la barca notata più volte?

A riguardare la scena del delitto rimasta impressa tra le note di stampa e i lanci delle agenzie di notizie, lo snodo della vicenda si trova in quella complicata e concitata ‘trattativa’, forse intessuta all’istante, all’improvviso nella notte, tra la sincope dell’agguato e la paura dell’imprevedibile, per imbrigliare e fermare, rallentare e bloccare la banda degli assassini.

Se fosse stato necessario anche con alcune bottiglie Molotov, ricolme di benzina, arma da guerriglia urbana, che l’ingegnere aveva cautelativamente preparato e utilizzato al culmine dello scontro, lanciandone una contro i malfattori, tanto da essere stata materialmente questa la causa scatenante della sparatoria.

In sintesi quel momento in cui, secondo gli inquirenti che diressero ed effettuarono le indagini (il Sostituto Procuratore della Repubblica di Crotone dott. De Lorenzo, il Comandante della Legione dei Carabinieri di Catanzaro, il colonnello Ippolito, e del comandante della compagnia di Crotone, il capitano Casella) gli aggressori chiesero a Perinetti solo le chiavi della vettura, mentre rifiutarono il denaro che il professionista si era detto disposto a consegnare loro per farli allontanare, tanto che se ne riportò a verbale la frase culminante dello scontro: “non vogliamo il danaro - rispose uno degli sconosciuti - ma solo le chiavi della vettura”.

Cosa c’era nel cofano di quella 124? Che tipo di autovettura era realmente? Trattavasi di un veicolo blindato, con al suo interno installate speciali attrezzature? E se Perinetti fosse stato, scriviamolo pure, un agente segreto sotto ‘missione’, se avesse avuto altri scopi oltre quelli naturalistici di abbronzarsi sulle dune di un incantevole luogo di vacanze mediterranee?

D’altra parte, perché non osare ipotizzare, visto che lui era ben addestrato e preparato tecnicamente a installare sismografi e boe, strumenti utili per monitorare il nesso tra terremoti, maremoti, tsunami e attività nucleare, comunque attività richiedenti sonde, esplosioni, perforazioni e quant’altro avviene nel campo vasto della strumentazione dell’industria estrattiva ed energetica che dominava incontrastata in quei decenni nei mari e lungo le coste del Mar Jonio, immenso, che collega e confina i due grandi Golfi di Taranto e della Sirte in Libia, che il segreto di questo omicidio stava esattamente nel cofano della Fiat 124 con cui era partito da Roma il 5 agosto per accamparsi a Selene nella stessa serata con la moglie, il figlioletto e tre amici (due donne e un uomo)?

Ieri come oggi Isola di Capo Rizzuto è una delle capitali europee del diving. Il piacere e l’avventura del turismo subacqueo, l’immersione free in un mare Jonio che per secoli in Calabria è stato zona franca per le varie marine militari dell’est e dell’ovest, una pista d'acqua salata fuori da ogni legge di terra, oltre il diritto internazionale, da millenni in mano alla pirateria, dai tempi dell’antica Roma fino ai Turchi e ai Turcheschi, immenso lembo off-shore, dove pullalava il contrabbando e ancora adesso riva d’approdo della tratta dei migranti dall’Africa e dal Medio Oriente.

Ai cultori ufficiali che detengono l’elenco e l’anagrafe dei morti di ‘ndrangheta si vuole ricordare un nome e una storia. Nient’altro. Di memoria l’ingegnere Maurizio Perinetti ne avrebbe dignitosamente merito, dopo 50 anni dal suo ingiusto e oscuro assassinio.