Ma non sarebbe un controsenso quando con ‘quest’acqua e questo vento’ anche tutte le autorità preposte ti invitano a non entrare nel convento? O, altrimenti, a disertare ogni luogo pubblico, agorà, piazza, uffici di stato, parastato e autonomie locali. E di startene nell’unico posto sicuro che lo Stato attuale può garantire, vale a dire la propria abitazione perché le Ordinanze perentoriamente sfornate al ritmo marziale del secondo del minuto comandano il divieto di ogni attività civile, economica, burocratica, sociale e per più giorni fino alla fine dell’allerta meteo?
di Vito Barresi
Ci si chiede attoniti di fronte a questi veri e propri diktat metereologici a che servono le strutture e le infrastrutture se non ad altro scopo che difenderci, tutelarci, agevolare l’accesso, la libera circolazione e proprio in caso di eventi stress, momenti limite e temporanei, previsioni di calamità, insomma situazioni contingenti, straordinarie ed emergenziali che aumentano velocemente e pericolosamente il rischio dei singoli, che dovrà essere appunto attutito e sventato dallo scudo dello Stato, dalla previsione, dalla vigilanza, dalla prevenzione e dal pronto intervento?
Sopra ai vetri della tua finestra si rincorrono gocciole di pioggia anche quando, anche quando fuori non piove… tal ché si riflette su una New York che si ferma e chiude durante una nevicata, o una Mosca con il gelo siberiano che si rinchiude in casa, oppure un Helsinki nella morsa del freddo polare che rinuncia alla vita pubblica…
Ecco, se non vogliamo essere ridicoli, almeno soffermiamoci sul paradosso che diventa evidente ogni autunno, ogni inverno, ogni estate, pure in primavera: serve o non serve la Protezione Civile in Italia, in Calabria, se al minimo spruzzo di pioggia ci viene ‘imposto’ con tanto di ordinanza di non circolare per le strade, di stare chiusi nelle proprie case, in breve di sospendere la vita civile e ritornare indietro nella macchina del tempo?
Bravi, diranno i soliti Catone di Governo, ma se poi succede l’alluvione, se poi... se poi… è stata tua la colpa, almeno no, lo Stato si è tolto con tanto di ordinanza e allerta meteo ogni responsabilità.
Quando arriva l’autunno in Calabria ne senti il rumoroso scroscio. C’è l’agitarsi tumultuoso di onde marine che sprigionano dal Golfo di Taranto, che si sommergono a vicenda, scontrandosi con rabbia, con energia nettunica spaventosa, portando odori, brezze, profumi che erano stati prosciugati dal caldo imperterrito della bella stagione.
L’autunno smarrisce le comunità operose che sono rimaste sulla terra agricola, ne scompagina il paesaggio. L’autunno è pioggia e sangue, Melissa tra i braccianti, in mezzo al greto di fiumi che sono sempre pregni delle lacrime amare di questa storia storta come un legno che cade in una pineta silana, nel faggeto aspromontano, nel castagneto del Pollino.
Pioggia che fa male alle strade sgretolate con la stessa forza capricciosa della successiva aridità, che spezza i binari e fa crollare i piccoli ponti della ferrovia che sguscia sul litorale, che spegne le luci nelle piccole stazioncine di campagna, chiudendo le paranze nel vincolo dei porticcioli o dei moli più grandi.
Turbini di nuvole e cirri che portano pioggia d’alluvione come sempre capita all’inizio delle lunghe ottobrate sul Mar Jonio. Se la pioggia scende giù a folate ha un suo senso metereologico, se batte con violenza ben altro sentimento climatico.
I torrenti che sono secchi, arsi d’estate che è durata sei mesi, incanalano pietrisco, detriti, rifiuti e fango trasportandolo dai meandri delle proprie origini montane, dalle sorgenti silane che affacciano al Tirreno, fino a valle di una foce immensa dall’Alto Cosentino.
Una striscia che si vede alla battigia d’uniforme schiuma color cappuccino che scende giù frastagliata fino a Melito Porto Salvo, in rotta processione che dai Balcani, dalla dirimpettaia Grecia, approda e si perde nel lembo d’orizzonte, oltre il quale immagini già le prime dune del Nord Africa siculo-calabrese.
Questa immagine ecologica, una specie di cronaca climatica, è il racconto meteorologico della storiografia antica, per molti aspetti ripresa dai più grandi storici contemporanei francesi, scuola Annales, nella sequenza comparativa e significante che lega le crisi economiche con le alluvioni devastanti, le carestie alimentari con le siccità infernali.
Un ragionamento devastato dalla modernità, dall’invasione di eserciti e corpi che comandano la popolazione intera a colpi di bollettini, brandendo l’arma finale dell’allarme meteo.
Dai quartier generali dei Comandi Supremi Nazionali, Regionali, Provinciali e Comunali vengono diramati veri propri bollettini di guerra che invitano alla rinchiusura dentro il guscio privato e casalingo, alla diserzione delle aule e delle cattedre scolastiche, alla paura dell’incombente minaccia di un’acquazzone, un temporale, un uragano.
A cosa serve l’investimento in sicurezza, in scuole a norma Cee, in strade che purtroppo non ci sono nemmeno più, se poi si muore in una Gola del Raganello solo per una tempesta in un bicchier d’acqua, mancando semplicemente i cartelli, i siti web e le strumentazione minime per la geo localizzazione in un Parco, le cose che ci dovrebbero fare più intelligenti e sicuri e che ti indicano anche sul telefonino l’incombenza di un rischio?
Nel giorno in cui sono state chiuse le scuole, le banche, gli uffici pubblici, la posta italiana, e quant’altro, nel giorno in cui siamo stati retrodatati nella macchina del tempo quando l’unico rimedio era quello di starsene rintanati senza mettere il naso fuori, lo sguardo si restringe su una città perduta lasciata solitaria all’acqua e al vento.
Non ci si adombri troppo se poi si comincia a riflettere sul reale e preoccupante stato calamitoso in cui versano certi uffici periferici dell’amministrazione dello Stato, come ad esempio le Prefetture in quel che resta della Provincia di Crotone dopo ogni pioggia alluvionale.