Ricordate la cover de ‘Il Mondo Salvato dai Ragazzini‘ di Elsa Morante? O la copertina più etnica e aspromontana di 'Tibi e Tascia' scritto da Saverio Strati? Pagine indimenticabili che sembravano perdute nella polvere della dimenticanza, ma che invece ritornano vive e palpitanti, realismo che dirige la prova d’orchestra della fiction televisiva, proprio in quel luogo sontuosamente abbagliante che si chiama Reggio Calabria.
di Vito Barresi
Aprono uno squarcio di immensa e propulsiva speranza le considerazioni consegnate a Cinzia Valente dal Presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, il giudice Roberto Di Bella, pronunciate nel corso di un'intervista apparsa sul giornale on line del Ministero della Giustizia.
Riflessioni che puntano dritto a rimarcare la straordinaria quanto esemplare azione di rieducazione, che non si esagera in questo caso nel dire vera e propria 'redenzione', trattandosi di un percorso di liberazione dal male supremo che affligge da secoli la società calabrese disonorata dalla ‘ndrangheta.
Sintesi di un lungo quanto appassionato impegno a favore di ragazzi e ragazze nati e cresciuti in contesti familiari mafiogeni che, spiazzati dagli eventi, hanno cercato aiuto ai giudici e alle equipe psico-socio-pedagogiche della Magistratura minorile, trasformando radicalmente gli aridi fascicoli giudiziari in storie di vita emozionanti e toccanti, in cui il valore della legalità finalmente si erige in loro contro la struttura diseducativa e incivile della delinquenza.
Un'appassionate, controversa, sofferta sequela di vicende umane e giudiziarie si è così trasformata nello storytelling e nel soggetto di una sceneggiatura televisiva, portata al successo con il film “Liberi di scegliere”, seguito e apprezzato da una ampia platea di telespettatori, con esattezza certificata da un lusinghiero indice di ascolto, grazie alla bravura interpretativa di Alessandro Preziosi, attore che ha nelle sue corde artistiche anche una robusta sensibilità giuridica.
Padri mafiosi ma figli non 'vittime innocenti' o prigionieri a vita della ‘ndrangheta e delle sue velenose pulsioni di morte, vendetta e odio disumano.
Questa la lezione, essenzialmente l’assunto cardine, che si ricava dall’impegno messo in campo in questi ultimi anni da un baluardo della Giustizia, il Tribunale dei Minori di Reggio Calabria dove, grazie al lavoro del suo Presidente, si è puntato dritto a priorizzare la missione più genuina e autentica di una istituzione che poggia le sue strutture operative sul suo stesso cuore pulsante, organo chiamato a battere costantemente non per la mera sanzione e punizione, non solo per la pena fine a se stessa, quanto per affermare il dettato costituzionale dell’azione rieducativa, esemplare monito, farmaco non lenitivo ma curativo e preventivo, testimonianza di civiltà contro ogni propensione al crimine e sottomissione alle storture criminogene pur sempre esistenti nel sistema e nella composizione sociale della vita pubblica, comunitaria e collettiva.
Quanto sta avvendo in Calabria, attraverso il recupero e la redenzione di questi ragazzi, altrimenti abbandonati come ostaggi innocenti alla spirale incatenante delle più cattive regole di una sub cultura violenta e criminale, pone in primo piano, in una luce educativa inedita e in una prospettiva socio-giuridica assolutamente unica e originale, a livello europeo e persino mondiale, una società locale e un ambiente territoriale non solo geograficamente considerato come l’ultimo non luogo d’Italia, la Cayenna della ‘ndrangheta calabrese, la riva di uno Stige dove il Caronte della 'fibbia' dove si traghetta per sempre al di là dello Stige, nell’inferno del carcere, un cospicuo esercito di generazioni senza futuro.
Al contrario, spiega nell’intervista il giudice, il mutamento in atto nella società reggina è profondo. Anzi ha fatto breccia nel muro dell’omertà, tanto da agevolare una nuova percezione della giustizia: “Sì, con una punta di orgoglio vi dico che il Tribunale per i minorenni a Reggio Calabria, territorio di frontiera, per molti ragazzi e per molte donne non è più un’istituzione nemica. Siamo veramente l’ultimo baluardo, un’ultima spiaggia nel mare dell’illegalità fonte di morte, carcerazione e di sofferenza. Con i nostri provvedimenti vogliamo aiutare questi ragazzi, le loro madri e anche i loro padri. Vogliamo liberarli, vogliamo risparmiare ai ragazzi un destino che il più delle volte sembra ineluttabile”.
Oltre ogni facile retorica circa l'ineluttabile trionfo del bene, ma alla fine dello sterminio, ciò che mi pare utile rimarcare, è l’esemplarità del modello cognitivo, tratto da un vissuto esperienziale in cui si misurano, forse per la prima volta nella storia della magistratura italiana e della lotta alla mafia, apparati giudiziari penali formalmente molto rigidi da una parte, e dall'altra con il magmatico mondo emotivo, psichico, sociale e relazionale della famiglia mafiosa e dei figli in essa nati, allevati, diseducati, formati non alla crescita ma alla perdita di ogni propositiva costruzione della propria personalità.
Ecco perchè i calabresi devono unanimemente saper dire grazie a questo illustre magistrato che più degli altri ha saputo toccare e agire sul nervo scoperto di questa terra e delle sue intricate spirali familistiche e parentali, spesso schiave del fatalismo, della menzogna e della rassegnazione.
Da questa esperienza (ma se ne potrebbero raccontare tante altre cresciute con coraggio nella stimmatizzata quanto bellissima, relazionalmente, socialmente e spiritualmente, amata Reggio Calabria) tutto il Paese, specie in questo momento di impegnativa transizione morale, potrà trarre molti motivi e spunti.
Da qui si rendono più visibili tante chiavi di lettura, persino inedite e inaspettate, di grande importanza per gli studi applicati, le metodologie di ricerca e indagine in sociologia giuridica e sociologia della famiglia, nel registro delle azioni giuridiche rilevanti, normativamente e socialmente efficaci, non solo con riguardo alla genesi del fenomeno ‘ndranghetistico ma anche all’eziologia di quel contesto etnografico, la famiglia allargata e quella nucleare, la parentela vasta e le sue ramificazioni genealogiche, persino la costruzione di una sorta di catasto quasi 'nobiliare' della famiglia 'ndranghetistica vincente, i gruppi associativi secondari che i formano nella devianza e nella condivisione della pratica malavitosa, ambito e brodo di coltura di modelli negativi che ne favoriscono la germinazione, la contaminazione e la strutturazione, in quanto progetto di vita offerto ai giovani, ai figli e alle figlie, nella diabolica proposta di una scorciatoia contro le ingiustizie sociali e istituzionali, di una facile quanto immediata conquista del comando e della ricchezza, traguardo attrattivo, ossessione schiavizzante che ha già ucciso migliaia di innocenti.