Giardinosofia, una storia filosofica del giardino di Santiago Beruete

Credevo di avere tra le mani tutt’altra opera: pensavo che, nonostante il titolo altisonante, Giardinosofia di Santiago Beruete fosse uno dei tanti libri che trattano di fiori e alberi e di come coltivarli. Da subito invece mi si sono drizzate le antenne.


di Patrizia Muzzi

L’esperienza del giardino possiede non soltanto una dimensione etica ed estetica, ma anche politica, inscindibile dalle precedenti. Le abitudini e i valori coltivati – si perdoni la ridondanza – del giardinaggio potrebbero benissimo guidare la ricerca del bene comune e migliorare la convivenza sociale. Oltre a essere una scuola di rettitudine morale e uno scenario per il viver bene e per la salute privata e pubblica, il giardino è giunto a essere, nella nostra epoca, anche uno spazio di resistenza e protesta sociale, di solidarietà e ribellione contro l’egemonia del neoliberismo e del neocapitalismo rampanti, ed è diventato un oggetto di rivendicazione politica e di lotta per i diritti dei cittadini e la sostenibilità ambientale. Il fenomeno degli orti e dei giardini comunitari, che proliferano nelle città del mondo occidentale, illustra alla perfezione i rapporti esistenti tra il giardinaggio e l’attivismo politico. Ne esistono più di seimila solo nella città di New York, dove si sono trasformati in spazi di socializzazione e integrazione intergenerazionale, in fonti di solidarietà, coesione sociale e mobilitazione cittadina, e in catalizzatori del cambiamento sociale. Oltre a essere un modo per produrre alimenti salutari e una forma per abbellire i luoghi pubblici e migliorare le condizioni ambientali dei quartieri, i giardini comunitari costituiscono una formula alternativa ed efficace di promozione dell’identità e del lavoro di gruppo, di prevenzione dall’emarginazione e dell’esclusione sociale e di riduzione della criminalità.“

Dopo queste parole ero già sufficientemente appagata. Mi domandavo da tempo come mai fosse rinato in me un così forte legame con orti e parchi. Sono nata in città e la via dove sono cresciuta esisteva già almeno dal 1118. Crescere in quel quartiere mi ha permesso di attraversare quasi tutta la storia degli orti e dei giardini in un solo colpo e inconsapevolmente ne ho assorbito la filosofia che li aveva generati.

Quando non trascorrevo il tempo nel giardino privato sotto casa, che era composto sia da un prato dove scorrazzare che da un campo coltivato, giocavo nei parchi che si trovavano lungo la mia via: il Giardino Cassarini di Porta Saragozza, con i suoi cedri dell’Himalaya e i bagolari, aveva ed ha uno stile romantico e pare si sviluppi da un complesso abitativo di origini etrusche; il Parco di via Melloni, dove convivono ancora alberi da frutto e una antica sequoia e un pioppo bianco; il parco di Villa Spada dove correvo tra l’ordine imposto dal giardino neoclassico ricco di vasi e sculture e la parte collinare più anarchica legata ancora al mondo contadino ricca di cipressi, lecci, pini, aceri, ornielli; e poi quello di villa delle Rose, elegante e severo dove la villa settecentesca venne utilizzata come ospedale durante la seconda guerra mondiale; il parco Talon di Casalecchio di Reno, facilmente raggiungibile in bicicletta, nel quale dal 1300 si stabilì la famiglia Sampieri e che nel tempo trasformò quei possedimenti in un centro di mondanità dal quale passarono Donizetti, Rossini, e perfino Stendhal che lo paragonò al ‘Bois de Boulogne’; il mio amato parco di villa Ghigi, che ha preso il nome dal suo ultimo proprietario, naturalista e zoologo di fama internazionale, ricchissimo di specie arboree autoctone ed esotiche; così come quello di Paderno che attraverso un sentiero poco noto si può raggiungere anche a piedi e infine, gli ottocenteschi Giardini Margherita ideati da Sambuy, lo stesso architetto che progettò il Parco del Valentino a Torino.

Ognuno di questi parchi presenta in sé le caratteristiche tipiche dell’epoca in cui furono ideati: ideali di libertà, di rigore morale, luoghi dove camminare e pensare, luoghi dove poter oziare, dove rimpiangere il passato, dove riflettere sulla morte, dove immaginare un futuro e, nel mio caso, dove giocare. La mia infanzia è trascorsa in mezzo al bello e alla natura, una natura controllata dall’uomo. Nella mia retina è impresso l’ordine imposto dalla topineria e il finto disordine dei giardini all’inglese, sono impresse le statue neoclassiche, i monumenti equestri, gli arazzi settecenteschi.

Di quei parchi così diversi tra loro e così magicamente misteriosi per noi bambini, potrei rievocare l’odore di ogni pianta, i pomeriggi afosi di agosto a guardare Bologna dall’alto di una collina o a nasconderci sotto le magnolie secolari in cerca di animali. Lo dico perché davvero mi rendo conto della fortuna che ho avuto, del benessere che ho ricevuto. Tutti avevamo accesso a questi spazi, e per fortuna sono ancora tutti pubblici. Sempre per citare l’immancabile Peter Wohlleben: quando siete in mezzo alla natura, provate a sentire come state. Devo dire che quel tempo dilatato fatto di verde è stato un bel tempo.

Gli orti e i parchi sono un fatto politico. Adesso che ho un orto e che vivo in una zona al confine tra il cemento e i giardini più recenti di Bologna, capisco appieno la necessità di avere a che fare con gli spazi verdi e di armeggiare con la terra. Crescere e vivere all’interno del bello, dell’armonia, immersi nella natura pur stando nelle città, non è utopia, si deve fare, è una cosa che tutti i cittadini devono pretendere. Quando non si trovano più bellezza e verde in città, si cercano altrove.

E qui entra in gioco la politica. Chi non può permettersi aria buona in città e non ha una seconda casa al mare o in montagna dove ritrova sollievo? In Emilia Romagna respiriamo una pessima aria: aumentano di anno in anno le malattie respiratorie, le allergie, i tumori, ma non solo, l’umore si modifica in base a ciò che vediamo e attorno a noi e sempre di più vediamo cemento, brutti palazzi e brutte periferie. Avete mai camminato nei pressi della tangenziale?

Avete mai attraversato in bici i cavalcavia del centro? A Bologna ebbero la pessima idea di creare l’autostrada a due passi dalla case e dal centro storico. A breve sarà avviata una nuova opera chiamata Passante di Bologna che raddoppierà cemento, inquinamento acustico, deturperà il paesaggio imbruttendo la città e rovinando la nostra salute. Sono appena usciti i dati che confermano che la vita di chi vive nelle adiacenze della tangenziale è più breve di parecchi anni, e servivano solo i dati a confermarlo perché io che respiro questa aria ogni giorno so di cosa parliamo.

Chi se ne frega se le persone delle classi sociali meno agiate devono vivere nel degrado, circondate dal brutto e dal malsano! Tanto non sono in grado di cogliere le differenze. Sembra questo il messaggio che ci lanciano gli amministratori della cosa pubblica. Siamo diventati un popolo d’ignoranti, leggiamo poco e siamo abituati a pensare solo al nostro piccolo quadrato di mondo, a sbeffeggiare la politica e a non farla.

Durante l’epoca del Grand Tour, si attraversava l’Europa per arrivare in Italia per godere della sua bellezza, dei suoi paesaggi, della sua storia. Vorrei più verde, più ciclabili, più spazi per anziani e bambini e madri che possano uscire di casa in serenità come accade in tantissime città europee. Queste cose si possono fare, si può riprogrammare il pensiero umano in altra direzione, lo si è sempre fatto.

Ridurre il numero di veicoli circolanti e non ampliare le autostrade (o perlomeno crearle in zone a bassa densità abitativa), ridurre l’uso delle plastiche, usare la tecnologia per il bene comune, io credo che si debba fare. La storia e il significato filosofico che racchiudono orti e giardini potrebbero ritornare l’emblema di questa nuova idea di mondo che dovremmo salvaguardare con tutte le nostre energie.

Alla fine, coltivare un pezzo di terra è forse una delle poche forme di difesa contro la mercificazione di tutte le nostre attività. Orti e giardini costituiscono spazi di resistenza in una società esageratamente consumistica come la nostra, perché la loro ragion d’essere sfugge per ora alla logica della massimizzazione dei benefici e al dominio del multitasking, della velocità e dell’immediatezza delle tecnologie digitali. In essi i valori dominanti non sono la produttività, l’efficienza e il successo materiale, bensì la cura, la contemplazione meditativa e il godimento sensoriale della bellezza. Occuparsi di un giardino o di un orto è uno dei pochi atti di genuina insubordinazione.”

Il saggio di Santiago Beruete è davvero interessante, ricco di spunti per riflettere sull’idea di mondo che vogliamo, di citazioni, di storia e ovviamente di filosofia. Cita anche il nostro Stefano Mancuso, scienziato di fama internazionale che si occupa di piante, riportandoci alla realtà delle cose: il 99,5% della biomassa del pianeta è costituito dal regno vegetale (dal 99,5 al 99,9%), quindi la biomassa animale (inclusa quella umana) rappresenta circa lo 0,1- 0,5% della biomassa complessiva sulla Terra.

Come tanti ormai hanno interiorizzato, siamo un niente di passaggio su questo Pianeta e senza immaginare realtà utopiche, possiamo scegliere di migliorare la qualità della nostra vita anche coltivando un piccolo orto o un giardino, pretendendo dalle istituzioni una migliore qualità dell’aria in città e più bellezza.