Sentenza durissima, esemplare. Che ha messo fine al primo round giudiziario con alla sbarra gli uomini più in vista delle famiglie e dei clan criminali di Isola Capo Rizzuto. Gli stessi che per oltre un decennio erano dediti a varie forme di sfruttamento e di controllo di un complesso sistema di accoglienza di migranti profughi e rifugiati, con a capo la Misericordia locale, soggetto gestore del centro Cara di Sant’Anna.
di Vito Barresi
Ci sono i nomi più in vista appartenenti alla famiglia Arena nel lungo elenco dei condannati destinati a scontare pene variabili che vanno da oltre 20 anni fino ai minimi di 2 anni, con annesse pene risarcitorie a enti e associazioni intese come parti lese, nonché ulteriori limitazioni previste nel dispositivo finale (LEGGI).
Con un atto stringato il Tribunale Ordinario di Catanzaro, Sezione Gip/Gup, in nome del popolo italiano, ha pronunciato una sentenza (LEGGI) che entra nella storia giudiziaria nazionale, essendo tra le prime, se non l’unica fino a ora, a sentenziare su un tema di scottante attualità quale quello dei collegamenti e dei rapporti tra la delinquenza organizzata e la gestione e il 'controllo' dei flussi migratori.
La sentenza di Catanzaro è certamente un primo tassello che va ad assestarsi in un quadro più ampio, in una cornice via via più precisa e determinante in termini di conoscenza e repressione di un fenomeno che vede scorrere parallelamente gli ingressi di gruppi consistenti di migranti con l'articolarsi di specifiche attività mafiose, di intercettazione dei transiti, tra scafisti e schiavisti, finalizzate allo sfruttamento di risorse sia umane che finanziarie e materiali messe a disposizione dagli Stati per affrontare simile emergenza.
Di certo quanto avvenuto, comprensivo del pesantissimo esito giudiziario che si cristallizza con questa sentenza, sembra dare conferma delle perplessità e delle critiche che, pure a suo tempo, sebbene tacitate dalla 'bianca omertà' che vige in certi ben noti ambienti della borghesia locale crotonese, alcune voci solitarie, ebbero a sollevare 'temerariamente' sulla troppo 'indiscutibile' e totalizzante bontà dell'univoco modello di gestione della Misericordia a Isola e nel Crotonese.
Leonardo Sacco a quell'epoca era vezzeggiato da tutto il jet set, la buona società crotonese, provvisto sempre di buona stampa e di eclatanti comparsate televisive sia nei media regionali (private e Rai) che nazionali, quasi fosse un 'enfant prodige', un talento che dava lustro al territorio per via dei posti di lavoro che contava la sua macchina 'caritativa', un nuovo Paperone che annoverava nella sua agenda tutti i nomi top della politica d'alto bordo a Roma, ministri degli interni, vice ministri, capi della polizia, magistrati illustri, ex capi di stato, alti prelati, parlamentari, presidenti della Regione Calabria, grandi burocrati europei, nel mentre ricordava a memoria quelli in dialetto dei malviventi paesani, un intoccabile non solo perché nipote di un affermato e serissimo penalista, ma anche perché dispensatore di sacralità eroica, la creazione di posti di lavoro, che qui è quel che conta più di ogni altra cosa, salvando l'anima dei nuovi e dei vecchi benefattori che cospargono gli occhi del popolo con abbondanti fette di rancido prosciutto.
Ciò perché, una lettura più generale e analitica, sembra suggerire che, fin dall'inizio di questo gigantesco esperimento di concentrazione e accoglienza dei migranti in un territorio ad alto rischio mafioso e fortemente connotato dal suo atavico sottosviluppo civile, politico, istituzionale, sociale ed economico, molti erano gli elementi evidenti di pericolo e distorsione, specie le tare congenite insite in una seppure non acriticamente 'discutibile' organizzazione a carattere localistico e assistenzialistico, impostata e definita, fin troppo supinamente e riduttivamente, da quel tipo di "Misericordia" indagata e descritta fin nei minimi dettagli nell'inchiesta del Procuratore Generale Antimafia della Calabria dr. Nicola Gratteri.
Tanto che l'esito di quello schema e di quella struttura operativa di accoglienza ha creato praticamente un ghetto, un recinto staccato e refrattario a un progetto di integrazione, di lavoro e di sviluppo solidale e compatibile con il territorio, a tal punto che, infine, invece di generare progresso si è prodotta in forma estrema la povertà, nella sua manifestazione più amara e desolante del delitto, della repressione statuale, delle condanne e del carcere per un consistente numero di persone, infine, private sia della libertà che di altri diritti universali.
La lettura delle motivazioni sicuramente costituirà un’occasione importante per cogliere il nesso paradigmatico dell’inchiesta di Gratteri, andando oltre la “narrazione” dell'indagine stessa, per analizzare e tipizzare nei dettagli i passaggi e le fasi che hanno storicamente facilitato e permesso l'installazione e la strutturazione di una rete di connivenze fuori e dentro gli apparati dello Stato, i collegamenti con la politica che sono ancora rimasti sottaciuti, il manifestarsi di una distorsione eclatante, rispetto alle finalità solidali e di accoglienza, il tutto allestendo un' impresa criminale lautamente e regolarmente sovvenzionata con fondi pubblici e comunitari.
Gli stessi rischi che incombono su un terzo settore, troppo spesso lasciato in solitudine, a gestire le emergenze poste dagli sbarchi e l'inserimento nei centri, la più concreta e utile individuazione dell'insieme degli errori, le manifeste omissioni e le sottovalutazioni da parte dei pubblici apparati di vigilanza, controllo e verifica (Prefetture, Questure, Ministero degli Interni,ecc.), che hanno poi determinato la “percezione” di un vivo allarme nella pubblica opinione nazionale, fino a determinare la demagogia e la retorica, le remore e i pregiudizi nei confronti di una corretta politica dell’accoglienza e della integrazione degli stranieri.
Lo smantellamento
di una rete criminale
consolidata,
socialmente radicata,
economicamente
spregiudicata.
Si apre adesso la complessa e articolata seconda fase di un processo destinato a prolungarsi nel successivo giudizio di appello che certamente, come accade in casi simili, apporterà modifiche che gli imputati sperano possano abbattere i picchi più alti di questa aspra montagna di anni di carcere, crollata e smottata sulle loro vite.
La sentenza, che di per sé è un lungo elenco di pene carcerarie, nel sintetizzare la complessa indagine svolta dal pool dei magistrati antimafia di Catanzaro, guidati dal Procuratore Gratteri, che portò allo smantellamento gli una rete criminale localmente consolidata, socialmente radicata, economicamente spregiudicata, sancisce la colpevolezza di Leonardo Sacco, il giovane governatore della Misericordia, condannato a 17 anni e 4 mesi di reclusione.
Sta di fatto che ad inchiodare Sacco alle sue colpe, alla sua insistente e pervicace strumentalizzazione e distorsione dei valori etici dell’accoglienza, alla reiterata locupletazione in bacinella di ricchezza e denari, utilizzando il mezzo tipico di una affiliazione organica alla ‘ndrangheta, sono stati alcuni pentiti “storici” che hanno confermato ai giudici delle indagini la sussistenza e la strutturalità di un indissolubile legame tra il gruppo che guidava la compagnia delle Misericordie e la criminalità territoriale (LEGGI).
A tal punto che a nulla sono valsi persino gli attestati di rispettabilità che lo stesso Sacco aveva negli anni lucrato nel mondo politico, ecclesiale, imprenditoriale, tra le buone famiglie di professionisti del suo paese, di fronte ad una così contorta e criminosa condotta che ha aperto davanti a lui il baratro del carcere per un lungo periodo della sua esistenza.
Per quel che concerne poi gli effetti di questa sentenza nel contesto ambientale, socio-economico e relazionale del Crotonese, della Calabria soprattutto, sarà da vedere, anche se per intanto l’azione del procuratore Antimafia Nicola Gratteri ha bonificato un segmento di territorio ed un ambito di attività istituzionale riconducendolo nell’alveo della legalità e del rispetto delle norme di legge.