La Calabria dei premi letterari che non dice mai una parola contro la politica e il malgoverno della Regione

19 agosto 2019, 20:00 100inWeb | di Vito Barresi

Mai nulla contro la situazione di degrado politico, di denuncia e sdegno verso l'indicibile abominevole collusione tra ‘Ndrangheta e politici corrotti. In genere se la cavano in cartellone con la presenza di qualche “magistar” del momento. Se no la buttano, come la pasta nell'acqua che ancora non sobolle, nella solita retorica un po’ accattona, condita nelle sagre letterarie di paese con l’olio buono di una boriosa genuflessione, nel retorico salamelecco a l’unico potere rimasto nelle lande desolate di tale Regione, con il rituale servo encomio alla magistratura, simile alle cerimonie di ieri. Nel passato, uguale a quelle d’oggi, nel presente, ad libitum.


di Vito Barresi

Tra i soddisfatti di sé e i malcontenti, due categorie di popolo intramontabili, scriveva Norberto Bobbio, noi che siamo “senza ombra di dubbio” collocati tra i secondi, osserviamo ciò, ormai con franchezza scevra e sconsolata, soltanto per confermare che giammai da questi premi letterari, da codeste serate di gala intellettuale, vien fuori un solo sospiro, la strascicata dichiarazione, il flebile sentito dire, l’allusione, financo gossip, di una moderata critica contro l’inqualificabile gestione regionale di Mario Oliverio.

In breve, una modesta frase di rimprovero al consigliere regionale in combutta con la ‘ndrina, un richiamo etico all’assessore comunale che tresca con il voto di scambio, un attacco militante contro l’assessore regionale alla cultura e ai beni culturali, che è difficile nominar chi sia, e via di fila in fila, di assessorato regionale in assessorato regionale, di consigliere regionale in consigliere regionale anche se con avviso di garanzia, di provincia in provincia che qui non entra la ‘ndrangheta, e poi si scopre che il presidente era un lazzarone, di municipio in municipio, ecc. ecc., a cui si può far risalire in discendenza e ascendenza il mecenate politico del premio o della serata.

Avete mai sentito dire, profferire, profetizzare da parte di un qualunque pinco pallino premiato, dai grandi letterati in trasferta e di ritorno che dicono altrove van sempre per la maggiore, una parola di fuoco vivo contro la mortificante condizione in cui versa la Regione, un dardo e una saetta contro i politici, i consiglieri, i partiti di governo, che detengono a mani strette tutto il comando della Calabria?

Nihil, niente! Manco a pagarlo con i sonanti dobloni d’oro di un vecchio telequiz di Mike Bongiorno, neanche a incentivarli con il controvalore d’arte contemporanea che sarebbe pari a un passaggio televisivo nel salotto buono di Fazio a Che tempo che fa, troverete tra la premiopoli che costella l’estate in Calabria, come le stelle cadenti nel firmamento notturno di San Lorenzo, uno solo di questi sedicenti “intellettuali”, ormai ex calabresi in terra patria, tronfi e orgogliosi di esibire alla festa di paese le faticose invernate nordiste.

Lo stato del rapporto tra cultura e politica in Calabria è praticamente siffatto. Un rapporto abbastanza rozzo, neanche essenziale, che si condensa in tale miseria degli atteggiamenti di convenienza e opportunismo delle schiere intellettuali.

Che almeno una cosa all’anno vogliono pur farla nel loro borgo natio.

Di certo non per moltiplicazione dei pani e delle rose, da portare in abbondanza come un donzelletto che vien alla campagna, men che meno per addizione, ma solo e soltanto per sottrazione stessa del “dono” originario, quello che sgorga dalla fonte primigenia, infantile e giovanile della patria calabra, tributaria di fantasia letteraria, ben venduta al pronto rango nazionale.

Perché poi, proprio i nuovi calabro “virgulti” dell’olimpo letterario italiano, non fanno altro che copiare, metaforicamente scrivendo, e a man bassa, le eroiche gesta, o il malvezzo, dei penati letterari e intellettuali del Novecento, quelli che, a esclusione forse dei soli Seminara e La Cava, quasi due irriducibili insieme a Giuseppe Occhiato, avevano anche loro, da Alvaro a Repaci, da Strati a Villari, interpretato l’esodo biblico, non in quanto grezza emigrazione, bensì avvincente approdo nell’altra Italia dei Mondadori, degli Einaudi e dei Rizzoli.

Per non sparigliare i piani dei romanzieri calabresi, creature eccelse perennemente intente nel cimento di scalare classifiche di successo e raggiungere le ardite vette delle vendite, con tanto di pubblicazione in Tutto Libri, Robinson e La Lettura, al contrario per loro, la Calabria deve continuare a restare dipinta, in quanto espressione arcadica, una classica terra dei vinti, una regione che se li è andati cercando i ceppi e le catene della sua eterna schiavitù alla ‘Ndrangheta.

Perché solo Loro hanno il coraggio di combattere con l’arma allegorica della fiction letteraria, senza mai sporcarsi le mani nello scontro sociale e di classe, nella quotidiana lotta per la vita che si svolge perennemente ancor prima dei tempi del brigantaggio.

Per cui ci vorrebbero non tanto i cani da guardia di Nizan, bensì i cani da tartufo di Molière, per rintracciare, oltre tale coltre di omertà, un autentico, vibrante, coraggioso, profetico e polemico rapporto fra i letterati di successo, gli intellettuali colti del Borgo e del paese e il fuoco vivo, la dinamica intransigente della lotta politica in Calabria.

Chi volete che se la guasti con i potenti che sovvenzionano a pioggia, e talvolta anche ad intensa irrigazione, i tanti premi letterari che si svolgono in questa regione?

Semmai sarà, ma non ci illudiamo con i tempi che corrono, si dia finalmente corso a un rinnovamento e a una rigenerazione intellettuale della Calabria che sappia rilanciare una cultura democratica, una presenza dei laici in politica e nella vita pubblica, aiutando chi non si vuole arrendersi né alla rassegnazione né alla anacronistica riedizione verghiana della cultura dei vinti.

Di finti intellettuali, blasonati quanto inutili accademici universitari, con damine e gentiluomini alla claque, ne abbiamo già visti troppi.

Se c’è una cosa di cui la Calabria ha urgente bisogno non è più la rappresentazione delle sue ferite, l’oleografia fine a se stessa dei suoi lutti e delle sue storture, bensì una nuova e più potente narrazione reale che si fa denuncia forte, profezia vissuta, progetto costruito.

Non ci resta che piangere?

Beh, meglio sarebbe aprire una finestra tra i due mari, auspicare un buon mattino, un nuovo giorno, un new deal che cambi al più presto corso a questo andazzo di estiva ipocrisia letteraria.

Sgombrando il cielo dalla solita solfa che inonda come spazzatura le caldi notti di vacanza dei nostri piccoli paesi.