Non aveva sbagliato le parole Gore Vidal. Si desta il ricordo della sua bella calligrafia, quella di un grande scrittore americano del Novecento. E resta l'eco in memoria delle sue frasi acute, asciutte, ancora vive a distanza di tempo, di un anno non lontano ma non più ravvicinato, lo squarcio d'inchiostro su un foglio dove veniva rovistato e squadernato quel che era il mondo attuale, appena dopo l’11 settembre del 2001.
di Vito Barresi
Conservo di Gore Vidal, oltre al ricordo di un bacio sulla sua guancia paffuta, dopo una bella cena finita con un tocco antico di Johnnie Walker (whisky d'etichetta che risponde come un primo amore simile alla boccata di sigaretta fumata da ragazzi), anche un suo appunto autografo. Quasi un cimelio di guerra culturale, un pezzo da collezione che lui mi volle autografare sull'edizione originale di Palimpsest (1995).
Una mattina di mezzo ottobre ce ne stavamo seduti davanti alla grande vetrata di un albergo su un costone di calanchi d'argilla, un edificio a semicerchio che ora non c'è più, guardando in silenzio tutto il mare possibile del Mediterraneo. Mi colpì, e ancora adesso la ricordo con dolcezza, la bella voce di Vidal: possente e infantile, sprezzante e incantata. Un impasto di notturna profezia e accidioso “j’accuse”, poi plasmato nel verso poetico di quella sua e unica sensibilità lontana.
All’improvviso Gore disse, quasi spaventandoci:
“Io sono un killer…”
“Vuoi dire, un dolce killer…” reagì qualcuno di noi.
“No, no… I am just a correct killer…”
No, no... sono solo un killer rispettoso, corretto.
Già, era fatto in questo modo il suo 'vero' personaggio. Per cui pensammo a quando un giorno qualcuno aggiungerà alle sue memorie, questi scorci non autorizzati, cogliendo l’assioma centrale del palinsesto della strana vita di uno scrittore che non ha mai finito di sbirciare la politica.
Ma dell’elegante narratore dell’età dell’oro, il cantore della mitica epopea in cui si racconta la resistibile ascesa mondiale degli Stati Uniti d' America, forse resisterà in noi ciò che realmente sentimmo: l’eco della sua risata smaliziata e metallica, il timbro fonico del cadetto di West Point, lo sguardo atlantico dei suoi occhi tragicamente omerici.
Che diavolo volesse dire con quel suo “correct killer” adesso mi pare di capirlo un pò meglio. Significava che lui, nell’intimità più autentica di politico mancato, non era un tipo che sparava a caso. In quel momento poi sembrava tutto preso dalla consapevole certezza che quel diceva il vecchio presidente John Calvin Coolidge rispondeva a tutta, alla sola, nient’altro che alla verità:”ogni parola pesa una tonnellata”.
Allora Vidal, senza scegliere strade secondarie, prese carta e penna per scrivere un documento autografo su ciò che realmente pensava di Bush e Osama.
“1) La prima legge della fisica dice: non c’è azione senza reazione.
2) Il ruolo degli Stati Uniti nella creazione dello Stato di Israele(1948/49) ci ha fatto guadagnare l’odio della maggior parte del mondo musulmano.
3) Ma per Osama Bin Laden che si considera l’erede di Saladin, è stata l’occupazione militare americana del suo Paese natio, l’Arabia Saudita, all’epoca della Guerra del Golfo, a ispirare la sua sorprendente Jihad contro gli Usa.
Il fatto che noi americani abbiamo un presidente debole, incoerente e che stiamo attraversando una depressione finanziaria, rende implacabile il suo tempismo. Bush bombarderà molti Afgani innocenti, rendendoci più odiati di quanto già non siamo. Non è l’inizio migliore per un nuovo secolo: una guerra di religione risuscitata dall’XI°secolo.”
Nel mirino della sua diamantina arma intellettuale mise colui che, all’atto delle sua elezione a presidente degli Stati Uniti, non esitò a definire, con la profondità di una smorfia che attraversa il calco senile del suo bel volto giovanile, “il padrone del mondo”.
Quella diagonale era solo un preludio. L’anticipazione labiale di ciò che era un attacco diretto, esplicito, implacabile contro il Presidente padre di ogni guerra anglo-americana, George Bush. Non gli avrebbe concesso attenuanti se mai fosse stato in testa a una corte federale. Se solo per un attimo le porte del congresso si sarebbero spalancate alla sua terribile e irosa requisitoria.
Bastavano non più di pochi minuti e la tribuna sarebbe stata inondata, colmata con la sua titanica ira. Un colpo di teatro assicurato. La recita del potere smascherato. Lo sguardo mite di Vidal tempestosamente cangiante in un fuoco saettante.
Grande fu la colpa di George Bush per aver fatto crescere a dismisura sul pianeta e nell’Islam (disse testualmente “Moslem word”), un odio indicibile verso la sua patria. Una nazione che Vidal amò intensamente, oltre ogni misura retorica, con distaccato furore, fredda premura, senza alone di cinismo.
Rabbiosamente, a dispetto di tanti opinionisti che dopo il fatale 11 settembre hanno clonato le tracce precotte della cosiddetta “sovranità globale”, con coraggiosa fermezza critica, continuò a contestare la versione unidimensionale della fedeltà americana. Fino al limite estremo di scagliarsi contro un presidente che gli appariva “alla mercè d’immense contraddizioni economiche”.
Dov’era allora il peccato, anzi l’errore? L’errore stava nel fatto che “l’America non perdona chi non ha denaro…”. Ma se il peccato ti assolve, l’errore ti uccide senza appello, perché non è un killer corretto. Anzi l’errore tramuta la propria essenza nello specchio deformante del terrore.
Così ritornava il tema chimico di Lavoisier: a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria…Dall’errore nasce il terrore, dal terrore il sangue a fiotti del fragoroso scoppio delle bombe terroristiche. Gore Vidal fu tranciante. Bush era debole e incoerente. La sua amministrazione prigioniera della confusa prospettiva di un ciclo di depressione economica. L’obiezione al sistema politico americano doveva essere radicale.
Lo ascoltai in un silenzio che materializzava l’evidenza di un’affermazione il cui peso specifico era incommensurabilmente più elevato di qualsiasi altra opera di scienza politica di stampo europeo. Per cui, non altre cause quanto le stesse contraddizioni che segnavano la crisi imperiale favorirono, paradossalmente, l’”implacabile” sfida terroristica di Osama Bin Laden.
Consapevole che tra letteratura e realtà le sfumature erano come sono sempre incerte, sottili e molteplici, per Vidal quel crimine di guerra era certamente un azzardo ma anche qualcosa di più: un gioco a scacchi che scombinava le convenzioni, scombussolava l’immaginazione della vita quotidiana occidentale. Procurava, infatti, una forte suggestione testuale, il faccia a faccia virtuale tra il “padrone del mondo” e il “padrino” di un “jihad”, al momento beffardo e imprendibile.
Con qualche tratto di penna quest’ultimo e rappresentato sorprendente ma non come un alieno, perché Osama non era il marchio di una nota fabbrica giapponese di pennarelli. Favorito dagli errori di una politica estera soggiogata dalla dottrina degli “interessi nazionali”, Bin Laden poteva considerarsi il successore di Saladino non per delirio settario ma per “ragioni” che scaturivano “dall’occupazione militare del suo paese natio, l’Arabia Saudita” all’epoca della “Gulf war”.
Non era finzione letteraria, artificio stilistico da romanzo storico, accomunare il leggendario eroe dell’Islam e lo stratega della “neoguerra” terroristica. Essi gli apparivano intimamente legati da un testo che da secoli li teneva insieme.
Bin Laden altro non faceva che riesumare in forma moderna il ricalco preciso di un’eredità storica, trasformandolo nel programma politico del nuovo ‘irredentismo islamico’. Il padrino del ‘jiadh’ aveva lo stesso sogno di Saladino: sottomettere l’Arabia e la Siria, conquistare Gerusalemme, scatenare una profonda reazione in Occidente per indurlo a intraprendere una crociata.
Poi trattare con i cristiani sconfitti, concedere loro da una posizione di forza il libero accesso ai luoghi santi.
Siamo proprio convinti che tutto questo fu solo un delirio? Siamo certi che le nostre e le altrui certezze rischiano di essere bombardare come ieri il Pentagono e le Torri di New York?
“Oil?”, mi chiese Vidal, guardando le sagome delle piattaforme metanifere al largo del piccolo golfo di Crotone: “Peccato sono arrivate anche qui. Sorry, rovineranno il mare di Pitagora”.