Le beatitudini di Beniamino? Diciamolo con Giobbe 28,28: "Ecco: temere il Signore: questa è la Sapienza e fuggire il male è l'intelligenza". Il suo fu un desiderio enorme di essere felici in una comunità di cuore e conoscenza, economia e politica, di conflitti e guerre di parte, odi e rancori del partitismo storico, contrapposizione tra Est e Ovest, pace e violenze, democrazie e totalitarismi, attraversando i confini dell'interdiscipliniratà, le terre a fuoco del principiante terrorismo trentino delle Brigate Rosse, quegli stessi 'uomini' a cui il Papa Paolo VI poi rivolse un drammatico appello di pietà, libertà, umanità, misericordia per salvare la vita del suo 'maestro' Aldo Moro.
di Vito Barresi
Fu con quella tensione incompiuta alla politica come più alta forma della carità cristiana che mi ritrovai in mano un giorno d'autunno, quel biglietto scritto per me su una 'comanda' della mensa di Arcavacata: 'Vada in'Opera', porti questo in amministrazione... avrà la sua stanza per studenti". E fu per me la 'maisonettes', spazio e motore primo della giovane matricola. Così finii di spalmare lo spazzolino con dentifricio e intingerlo sotto la fredda acqua del mattino da una fontana dell'antica stazioncina di Cosenza Centrale.
Ne "Il Sogno di Beniamino" (quando un giorno si troverà un produttore interessato a una piéce teatrale a forma di talk, alla Ted per intenderci, o forse persino un film, una fiction televisiva), due tre fogli A4 che restano un progetto ideato, elaborato dai promotori di un ricordo, abbiamo immaginato di custodire una nostra memoria animata di nostalgia senza rimpianti.
Semplicemente una piccola storia ai margini della grande macchina del potere politico e univerisitario italiano, in cui uno studente calabrese degli anni Settanta racconta il mito di fondazione del primo campus italiano, e un caro discepolo a Trento e poi docente di antropologia a Cosenza la grandezza umana di chi divenne poi suo stesso Rettore.
Chissà, Andreatta forse non sarebbe stato tanto d'accordo con il torpore fin troppo civile e perbenista in cui si è inceppato il sacro fuoco dello stato nascente, con un corpo docente abbastanza impiegatizio e avanzato negli anni, una 'classe' studentesca oltremodo disimpegnata, fisionomie caratterizzanti la vita accademica dell'Università della Calabria, da lui fondata nella lunga stagione degli 'Anni di Piombo'.
Tracciare un ritratto di questo speciale uomo di potere e contropotere, significa per alcuni aspetti, già segnare la linea di una qualche causa di beatificazione, raccogliere in una prospettiva di rinnovata attenzione critica, spirituale e contemplativa, i frammenti sparsi e dispersi che sono prova di un costante esercizio eroico delle virtù nel campo dei saperi, del confronto, del dialogo, della interconnesione di piani apparentemente contradditori ma fertili, rigenerativi delle fede viva, creativa, speculativa e operosa al contempo.
E di episodi ce ne sarebbero tanti, comunque tali da mettere in una luce tutta di energia e diversità, i micro miracoli intellettuali, la carità accademica, la carica morale di novità, la fondazione, il sostegno e la promozione della nuova università della Calabria che fu un progetto d’argilla e d’utopia:
"Il racconto del professore ha avuto come filo conduttore il ruolo di Beniamino Andreatta che non si è limitato soltanto a garantire la funzione politica istitutiva, bensì, anche quella del prendersene cura come fosse una creatura a cui affidare il volano per il riscatto sociale della Calabria e di calabresi. Io non ho avuto la fortuna di frequentarla l'Unical, pur avendo lottato perché nascesse. Custodisco, come una reliquia, in fatti, un mandato di comparizione, spiccato dalla magistratura, non diventato esecutivo solo per la provvidenziale approvazione di un'amnistia, in seguito all'occupazione del Teatro Rendano, protrattasi per alcuni giorni. In essa, però, vi si sono laureate le mie figlie e migliaia di ragazzi e ragazze calabresi, grazie ai quali qualcosa è cambiato anche nella nostra regione. Purtroppo non è un momento felice per l'Italia e il Sud in genere, che paga lo scotto di uno sviluppo diseguale e ancor di più le sforbiciate degli ultimi anni, alla ricerca e perciò stesso alla massima istituzione a ciò deputata che è l' Università."
Come ieri, cinquanta anni fa, il grande sogno di Beniamino, fondare una nuova università come fosse una Cattedrale nel deserto, una trappa dell'intelligenza alla Charles de Foucauld, quasi nascosta in una vallata del Bruzio selvaggio e contadino, era cosa da prete, quasi uno scherzo, da monaci eremiti in cerca di qualche rudere dove dormire e trovar mensa.
Divagazioni mistiche da missionario particolarmente sui generis, con quel suo seguito di 'benandanti' post sessantottini che venivano dall'Università di Trento, dalle segrete in cui il Sacro Romano Impero Accademico del baronaggio dell'Alma Mater, aveva buttato una nuova generazione di eretici, i ribelli, i rivoluzionari, i bonzi clandestini del sapere che non volevano diventare cani da guardia di quel capitale di allora.
Beniamino, per quanto in giacca e cravatta, con pipa alla Simenon, dentro aveva il fuoco ancestrale e mitologico di un monaco senza monastero, un cercatore di Dio nel sapere e nell'intelligenza che a chiunque passava dal suo villaggio ad Arcavacata nel deserto di una Calabria ottocentesca, cristiani, musulmani, ebrei e idolatri, si presentava come il fratello ecumenico, il priore del dialogo interdisciplinare e universale, offrendo a tutti una celletta nell'ordo, l'ospitalità francescana in mezzo alle guglie di una nuova certosa dei saperi.
In uno di questi dolcissimi pomeriggi d’ottobre, lungo la prospettiva sagomata dagli assi d’acciaio che dal ponte Bucci si spingono fino nelle quinte reali delle colline cosentine, si può godere tutto il più limpido cielo di una stranita stagione di guerre e di paure.
Si, in fondo, quando lo vidi il giorno in cui convocò l'assemblea d'ateneo per via di quelle scritte missine che lo fecero urlare a difesa della la sua università, che non poteva che non sarebbe mai finita come i muri di quella di Messina.
Anche a costo di sospendere tutte le libertà democratiche dell'ateneo, quella intemerata riecheggiava la sua più intima natura austera e ribelle, l'indole politica che fu di Giorgio La Pira dalla parte della "Chiesa della povera gente", la teologia alla Giuseppe Dossetti in cui Andreatta esprimeva la vocazione di "applicare criteri teologici alla politica, fidando in Dio prima che negli uomini, nella grazia prima che nelle opere», però badando a separare le due sfere, evitare, la sacrilega intenzione di coinvolgere Dio nelle proprie scelte, e l’opportunismo che pure caratterizza numerosi cristiani".
Ripensare Nino Andreatta, il cattolico 'bolognese', presidente Fondazione per le Scienze religiose “Giovanni XXIII” nata dal lascito spirituale e materiale di Dossetti, la FSCIRE che dal 1985 presiedette fino al 2007, l'uomo politico e lo statista, lo studioso ed accademico universitario di grande respiro mondiale ed atlantista, non è facile misurandone la portata della sua eredità con la dimensione quasi marginale della Calabria, è come una prova del nove sull’esercizio eroico delle virtù.
Fatti ed episodi da rimeditare, lampi d'improvviso intravisti nella scena di un pomeriggio d'ottobre ad Arcavacata, dove le rotte aeree sono libere e larghe e il passaggio dei velivoli militari, prima diuturno, si è rarefatto fin quasi ad annullarsi con il passare dei decennni.
Per anni svogliatamente abbiamo osservato questa curiosa meteorologia meccanica che ara l’immenso tappeto d’azzurro, lasciando in vista plateali solchi alla Magritte, il resto bruciato del loro avionico e candido propellente.
Sarà stata nient’altro che una momentanea suggestione ma, al mio sguardo, il campus si presenta, d’improvviso com’era tanto tempo fa, chiuso in quel suo surreale e sperduto silenzio, che sapeva di dispense al ciclostile ed erbe di campagna, una costruzione a pezzi di Lego in cemento e acciaio tra un europarco e un kibbutz.
Adesso che il mondo è cambiato davvero, oltre ogni immagine sfocata, s’intravede plausibile l’incombente rischio di un’angusta rinchiusura in tanti coriandoli di vista locali.
La grande fabbrica di bella gioventù ed elettrici saperi, non parla, non urla, non dibatte, non reagisce e come muta giace nel guscio collinare di un modernariato calabrese che ha definitivamente sperduto l’effervescente spirito delle origini.
Tra casermette e polifunzionale, docenti e studenti partecipavano all’epoca pionieristica di quella che, ironizzando un poco, qualcuno definì "University of Arcavacata".
Le generazioni studentesche che si trovarono coinvolte in quella originale esperienza di stato nascente ne rimasero affascinate, addirittura perennemente timbrate, fin quasi al livello di un vero e proprio ‘imprinting’ culturale.
Fu anche per questo che "l’amerikano" Andreatta divenne ben presto l’obiettivo sensibile centrato nel mirino di infinite polemiche alimentate senza sosta dalle camarille politiche locali, incapaci com’erano di raccogliere la sfida atlantica del campus di Arcavacata.
Non so se sbaglio ma mi pare di rivedere un subdolo ritorno di quel tanto deprecabile politicantismo di un tempo in questa incensurata assenza che, in punta di opportunismo, lascia scivolare senza danni né pregiudizio, una fase probabilmente importante anche per ridefinire modi e luoghi del pensiero critico e dei movimenti di innovazione e progresso nella società calabrese.
E mi chiedo se il patrimonio dei padri fondatori sia andato definitivamente sperduto o dissipato e se proprio da questa rimozione, dall’oblio di quella memoria, nasca il neo scetticismo e un po' cinico il disinteresse per le sorti future della Calabria.