Quel giudice che conta i soldi e che avidamente s’impossessa dello “sterco del diavolo”, quel magistrato pervaso dalla concupiscenza di tenere in mano il denaro, gli “euri” in biglietti di banca, quel servitore infedele dello Stato che maneggia voluttuosamente all'incasso (QUI), quasi con urtante destrezza fiscale, rapido e preciso nella tutela egoistica del suo potere sugli altri, non è soltanto una replica sordida di un dipinto di Hieronymus Bosch, ma un’immagine cruda e realistica del degrado e della corruzione che s’innesca ovunque ma con maggiore pericolo nel quadro allarmante di un contesto sociale ed economico, quale è quello di una regione arretrata a rischio criminale che si chiama Calabria.
di Vito Barresi
Vizi privati, pubbliche virtù, vuol dire che sempre io comando e servi tu… se andava bene un tempo ora non più, vizio privato, su, rimani tu, Donna specchiata per la pubblica virtù… cantava una canzone di Paolo Pietrangeli.
Non è la prima volta che la cronaca racconta fatti simili a quelli avvenuti tra Catanzaro e Cosenza, l’irruzione nelle sacre stanze del potere statale, giudiziario, ministeriale, regionale e comunale del delitto e del crimine tanto facilmente scrutato e deplorato nel vissuto sociale, economico e politico di una regione perennemente messa all’indice per la radicata endemia mafiosa e ’ndranghetistica che in questi luoghi la fa da padrone.
Storie come queste, di magistrati corrotti e ammaliati dal contante, fin troppo goderecci e lussuriosi, per quanto se ne raccontano da sempre, da che c’è la morale catturata e racchiusa nelle fiabe del lupo e dell’agnello, oggi nell'epoca dei social e delle fake new, sedimentano nelle vene profonde della percezione collettiva, un veleno letale di ben più impressionante impatto.
Racconti un po' balzachiani, un po' alla Bukowsky, che entrano nel discorso diffuso senza il ridere della barzelletta ma nel sapido gossip della diceria paesana, a mò di ponteggio, palcoscenico allestito dalla cronaca del reale (e del “reame”) per penetrare, non più dal buco della serratura ma dall’occhio di una telecamera che spia, nelle stanze esclusive e inaccessibili di potenti, dei vip e dei parvenu, insomma di quelli che la sanno lunga sugli intrighi e gli intrallazzi di Calabria, che tengono ‘banco' e attualità nella vita grigia del mondo provinciale.
Amanti degli assegnucci facili, inclini al principio di soddisfazione di speciali desideri sessuali, frequentatori del catalogo delle perversioni pornografiche, quando tali casi avvengono in casa pubblica, lasciano un alone di dubbio e perplessità, tale da sfibrare il legame di coesione e fiducia che sempre sta alla base e deve essere garantito nel solco della legalità, tra cittadino e stato.
Siano pochi o molti questi episodi sono un cattivo esempio da colpire e condannare.
Specie quando non si assolve lo sciancato che si è malauguratamente imbattuto con qualche ‘ndranghetista o si lasciano in libertà i ricchi e i potenti che sanno manovrare con la politica, con il traffico delle influenze, la corruzione.
Soprattutto quando si contribuisce con gli ammiccamenti necessari alla viltà, a ingenerare l’infondato quanto superficiale dubbio che molti di questi reati resteranno per lungo tempo impuniti.
Anzi se ti permetti saprai magari a tue spese chi sono io, di fatto incitando alla reiterazione tali franchi tiratori del delitto, che si sentono ben coperti dietro le tende della loro camere istituzionali, coperti dall'invisibilità di una carica o di un ruolo che offusca e depista, sfruttando la “reverenzialità” che incute il rango e lo status, l’intoccabilità della toga o di quant’altra divisa “sacra” vilipesa, maltrattata e ridotta nel fango, similmente a un cencio di un orrida gualdrappa magica, utile a coprire le miserie morali e le soggettive e personali nefandezze materiali.
Quel giudice che conta i soldi con avidità (QUI), quel prefetto che richiede tangenti (QUI), quell’avvocato che intriga, quel rappresentante delle forze dell’ordine che non sa rispettare il giuramento e la fedeltà, diffondono un’immagine avvilente ed eversiva che lede la simbologia costituzionale della Giustizia e della pubblica amministrazione, perpetrano un attacco devastante al decoro e alla dignità dello Stato e delle istituzioni.
Il numero nero dei reati commessi dai colletti bianchi con funzioni statali è, purtroppo, uno dei segnali più preoccupanti del radicamento e della presenza di figure senza pudore né principi valoriali.
Colpevoli o vittime che siano di una sprezzante pulsione al delitto sono questi i gli apparenti portatori sani di un virus che si diffonde e cresce a malapianta anche nei vasi ben curati e custoditi del giardino pubblico dove vige l'apparenza del formalismo ostentato, delle regole troppo ritualmente sbandierate, senza mai dare un quoziente e un valore di umanità vera e relazionalità coesiva, al dettato della correttezza, della lealtà e della reputazione degli uffici statali.