A Rosarno Agricoltura e Coronavirus sulla ‘linea calda’ di scafisti e caporali tra riarmo migratorio e ritorno in baraccopoli

2 aprile 2020, 22:15 Il Fatto

Potrebbe improvvisamente e caoticamente diventare di nuovo un’immensa metropoli di lavoro nero. Una città enorme, deformata urbanisticamente ma grezza e compatta antropologicamente omogenea perché “black”, con al centro il proprio equilibrio “naturale”, la sua autonomia interna, la legge atavica della concentrazione umana. Tutto disegnato a terra lungo le linee di un paesaggio agrario antico, in una localizzazione regionale moderna, emersa prepotentemente dopo la distruzione ecologica della Piana degli Aranci e degli uliveti secolari e la costruzione del faraonico e fallimentare “porto canaglia” di Gioia Tauro.


di Vito Barresi

A Rosarno tutti danno per scontato la ripresa dei flussi migratori da cui attingere braccia e manodopera per l’agricoltura calabrese. C'è persino tra gli esperti chi avanza l’ipotesi e la stima che in Italia da qui ai prossimi mesi potrebbe esserci un fabbisogno e una domanda di lavoratori stagionali oscillante tra centocinquanta e duecentomila addetti, compresa la Pianura Padana.

E per questo sentiero la prevedibile, abnorme dilatazione territoriale della ex baraccopoli - smantellata a suon di ruspe dopo i tre squilli di tweet del tonitruante leghista lombardo Matteo Salvini - tornerebbe tumultuosamente a ripopolarsi alla grande.

In un certo senso l’impianto di un falansterio di miseria e degrado è rimasto intatto, nonostante le passerelle televisive dell’ex ministro sovranista che in candida camicia bianca, dal profumo di pulito padano, un giorno d’agosto era venuto qui, come un tempo il Duce in Calabria, per stendere al suolo la Cartagine italiana dei dannati della terra.

In ciò che resta ancora il paradigma europeo di un “non luogo” alla Marc Augè, paradossalmente, pare già di sentire il tam-tam tribalista del mercato del lavoro agricolo meridionale, calabrese, campano, siciliano, pugliese, alla ricerca di braccianti per il grano, l'ortofrutta, le primizie, la frutticoltura, le serre, ecc.

Il richiamo del deserto che, per vie invisibili, per quanto suscettibili di ben facile tracciabilità, collega con una catena schiavistica e un satellitare sempre attivo e in linea, i caporali di giornata (in fondo sono loro i veri capitani d’industria di questo Sud nuovo e sempre eterno) che hanno il monopolio della forza lavoro agricola, con la plancia di comando degli scafisti che provengono dall’est, gli ucraini, i bielorussi, i ceceni, i serbi che compongono l'equipaggio e affollano gli “ammiragliati” della nuova pirateria che infesta il Mediterraneo con base in Libia, come ai tempi di Pompeo.

Il Coronavirus sta promuovendo una grande ripresa produttiva, quasi una inedita pagina di “accumulazione selvaggia” nelle agricolture europee, specialmente quella italiana e francese, oggi subissate da una domanda alimentare che altrimenti sarebbe rimasta atonica, astenica, al rango gracile di una curva microeconomica persino anoressica, che non dava margini di profitto appetibili, restando appesa al bilancino delle nuove mode alimentari, delle diete e della riconversione “bio” della pasta, del pane e del formaggio companatico.

Le cose sono improvvisamente cambiate con l'avvento della pandemia. I motori rotanti della GDO (Grande Distribuzione Organizzata), accesi giorno e notte, si sono messi in movimento come all’epoca d’oro della crescita economica a moltiplicatore infinito, facendo girare a tamburo battente l'intero settore agroalimentare, come non si vedeva dai tempi del boom del benessere del secondo dopoguerra.

A misura dell’inarrestabile traiettoria di questa striscia consumistica di base, la corsa al carrello d'oro in cui sistemare il tradizionale paniere dei prodotti di prima necessità, il riarmo produttivo nei campi agricoli, la riattivazione rapida di una logistica dei trasporti, il potenziamento della catena del freddo, surgelazione e conservazione, ha risveglieto il mondo rurale, sollecitando forze e valori marginali.

Questa sorprendente quinta, sesta o decima che sia, rivoluzione agro-industriale sta sollecitando la riattivazione dei flussi migratori tra Africa ed Europa, con la convocazione urgente di masse transnazionali di senza lavoro, un esercito di riserva immenso, altrimenti detto nuovo proletariato africano che dopo la pandemia sta per affluire in questa parte del mondo mediterraneo.

A convocare i flussi di una carovana immensa di “great immigration” sarà probabilmente la fortissima domanda di bracciantato e manodopera “unskilled” da parte dell’agricoltura meridionale, la forte richiesta del mercato nazionale che vuole subito adeguate e congrue forniture fresche di alimentazione, derrate agricole per la popolazione dei più importanti centri urbani italiani.

L’area geopolitica di questo vasto mercato del lavoro transmarittimo, ponte umano tra il Golfo della Sirte e la lunghissima riviera ionica che dalla Sicilia Orientale risale fin nel Golfo di Taranto, agiscono compagnie illegali di vero e proprio “lavoro interinale” che porteranno in Europa le braccia di migliaia di “campesinos”, africani, a partire dalle campagne del sud italiano.

Sarà questa la vera, grande narrazione dell’estate che sta arrivando e che ci porteremo a discutere sotto l'ombrellone.

Con una sua specifica e autonoma “play list” di rapper e gospel che già si leva in controcanto tra l’umanità sfruttata che ha la stessa faccia del povero “Sako”, il giovane del Mali ucciso a colpi di lupara, una notte di luglio a San Calogero. Non per aver rubato una mela ma soltanto una mezza lamiera arrugginita per farne il suo tetto, tra le baracche di San Ferdinando.