Eravamo quattro amici al Bar. Italia il paese dove il caffè è ‘sospeso’ ma per Coronavirus

5 aprile 2020, 15:25 100inWeb | di Vito Barresi

Anche il pianista di piano bar alla fine ha dovuto arrendersi alle rigide prescrizioni imposte dall’epidemia. E chiudere in fretta la sua tastiera lasciando sul cofano del Yamaha nero canzoni, motivi, strofe, note e tanti rimpianti aperitivi. Antichi, d’epoca, sontuosi, lussuosi, di tendenza, minimalisti, modernariati, di qualsiasi stile essi siano il Coronavirus ha abolito l’abitudine per eccellenza degli italiani, prendersi un caffè al bar.


di Vito Barresi

Persino il paesaggio sonoro che trasportava in sottofondo, quasi di default, l’atmosfera e il mood del bar, il rumore cadenzato della stoviglieria e dei bicchieri tintinnanti, mixato alle comande a passa voce, si è tramutato in un sordo ricordo di tanti momenti magici, settemila caffè, li ho già presi perché sono stanco di stare al volante, scambi aggregativi, saluti, appuntamenti, affari, risate, battute, gossip, pettegolezzi, politica e sport.

Spazio all’inizio considerato profano persino dalla Chiesa che ne impedì la frequentazione fin quando Papa Clemente VIII, dopo avere in gran segreto assaggiato una tazzina abolì il divieto, il bar è oggi un tempio “sacro” e laico della vita relazionale, comunitaria, amicale e civile, talvolta anche ideologicamente e politicamente ben connotato, specialmente per la tribù dei caffeinomani italiani.

Quasi una triste quanto nostalgica memoria che prende a ripensare uno dei luoghi centrali nella socialità del mondo occidentale, un teatro quotidiano della nostra “bella époque” perduta, quel costume collettivo, stile di vita la cui storia sociale in Europa affonda a secoli indietro, ai primi caffè d’epoca viennesi, la mania o malia venuta dai turchi e da quel loro inconfondibile aroma arabico di Costantinopoli.

Secondo alcune ricerche sui flussi e la frequenza dei consumatori del “fuori casa”, più di sei persone su dieci (il 64%) vanno in un bar o bar-pasticceria per iniziare la giornata, con una spesa media di due o tre euro per il caffè o il cappuccino con la pasta, oppure un succo di frutta e un salato. Circa sette su dieci, il 68%, consuma il pranzo infrasettimanale in un bar tre o quattro volte a settimana, pagando fra 5 e 10 euro.

Chi poteva immaginare che tutto si fermasse d’un colpo, senza alcun preavviso?

Davvero, come cantava Morandi (“dimmi ancora che cos’è questa angoscia dentro me”) al bar si muore, sebbene ai suoi tempi c’era un’altra guerra che faceva ratatatata, e non il terrorizzante silenzio del coronavirus che ha sbarrato le porte dei bar, prodromo infausto della devastazione economica, la probabile sciagura sistemica che travolgerà commerci, mobilità, territori, nazioni, apparati industriali, città, metropoli e villaggi rurali.

A tal punto che le previsioni degli esperti del settore Horeca (che poi significa per il 60% ristoranti e il 40% bar) sono tragiche per questo 2020 che potrebbe essere tarato da un crollo del fatturato per l’intero settore superiore al 45%.

Solo scegliendo a caso un fermo immagine tra le tante regioni d’Italia, la sovrapposizione tra il prima e il dopo, fa mettere un autentico brivido: i pubblici esercizi in Toscana sono circa 22 mila, di cui più di un terzo dei quali sono bar e caffetterie: nella sola provincia di Firenze i bar sono 1.800, erano aumentati del più 10% in dieci anni, ma ora la conta si annuncia devastante.

Neanche ai tempi della prima e della seconda guerra mondiale, nemmeno in quelli di Seveso e poi Chernobyl, o durante l’imperversare del terrorismo rosso e nero, mai si era giunti alla totale chiusura dei bar, istituzione iconica dello scenario urbano italiano.

Il virus cinese ha completamente stravolto l’ordine delle cose e come la furia di Chen è passato con forza e colpi devastanti mandando in frantumi le cristallerie dei più bei e famosi locali italiani a Venezia, a Milano, a Bologna, a Napoli, a Palermo, a Catania, a Bari, a Torino, a Genova, ecc. ecc.

I bar che nella filiera territoriale del turismo italiano rappresentano un punto nodale di incontro e informazione, una cerniera che svolge un importante “servizio pubblico” di accoglienza e orientamento, tra gli esercizi commerciali più di altri, sono stati colpiti al cuore.

Sta andando così e bisognerà attendere fino alla fine, forse oltre il primo maggio, la conclusione del periodo di chiusura. Anche se dopo, quando le porte si riapriranno, nei bar non sarà più niente come prima.

Bisognerà inventarsi una nuova idea di contatto, relazionarsi secondo altri indici di socialità, dentro le logiche più stringenti del distanziamento sociale e della sicurezza sanitaria.

Il mondo di domani, quello del post Coronavirus, sarà quello in cui ci racconteremo le storie Al Roxi Bar di Vasco Rossi, al bar Casablanca di Giorgio Gaber, al Bar Mario di Ligabue, il 29 settembre... seduto in quel caffè guardavo il mondo che girava intorno a me… Eravamo quattro amici al bar... Si parlava con profondità di anarchia e di libertà tra un bicchier di coca ed un caffè...