Ci sono luoghi usciti dal mondo che si ritrovano oltre il virus. C’è sul pianeta una rete di spazi immuni, minuscoli punti, invisibili persino alle mappe geografiche satellitari, scartati dalla contaminazione, lasciati dentro nel territorio nullo dell’oblio e della dimenticanza. Non sono cimiteri monumentali ma nature di viva memoria e umana riconciliazione con la storia. Nel vecchio Borgo di Papaglionti anche quest’anno la Pasqua si celebrerà nell’estasi del silenzio e della primavera.
di Vito Barresi
Forse è ancora lì, davanti al Calvario di Papaglionti, il borgo in magica rovina, abbandonato dopo il terremoto del 1905 e l’alluvione del 1952 che, camminando a pochi passi dal più vicino centro abitato, puoi oltrepassare senza controlli da parte dei gendarmi dell’antivirus, la zona rossa dei nostri peccati quotidiani, ritrovandoti finalmente nel lembo del mantello di una Pasqua interiore.
Una meditazione ascetica che prende architettonicamente la sua eterna forma rettangolare, custodita in una muratura di pietra granitica e di mattoni rossi ricoperti di segni di biacca e calce bianca sbiadita dal sole.
Dentro le tre nicchie che raccolgono in un contesto la preghiera, a destra e a sinistra più piccolo, lento, impercettibile, al centro forte senza tosse il respiro dell’uomo, i due polmoni orientale e occidentale della Madre Terra armonizzati in un istante, tracce di un affresco agreste che raffigurava scene della crocifissione.
Papaglionti è un territorio incorporeo, in cui si avverte la pace della natura che altrove non c’è più, è finita, la tranquillità e la calma di storie di vita e personaggi che sono ancora qui, pronti a raccontare la loro favola, l’esperire vivente del semplice che cerca la felicità.
La foto scattata da Mari Dalbis al Calvario di Papaglionti è un instagram prima di instagram, uno scatto meditato e fugace su un’ara, una pietra, un paesaggio, una natura che si racchiude in tre ogive di silenzio.
Qualcosa di staccato, riposato ma non rilassato, che racconta la storia di una comunità e di più generazioni che risalgono al 1200, espandendosi in un paesaggio di luce bucolica, un’alchimia di emozioni pulite, fissate con tocchi di colori a polaroid su una lastra d’altri tempi.
Una pellicola kodacrome scaricata e tranciata, strappata e poi ritrovata tra i ruderi dell’oratorio di una chiesa in rovina, che rispecchia una rappresentazione circolare, bidimensionale, figurativa, estatica, astratta, simile al fondo di una pala d’altare, molto ma molto somigliante alla pittura di Giotto.
Libera nos a malo di un Ligabue modulato secondo il ritmo interno di una inarrestabile dolcezza, la lacrima che solca un volto tradito e abbandonato e che fa piangere sule nostre vite sperdute, disorientate dall'est, inaridite dall'ovest, accecate dal nord, stordite dal sud, sulle cartoline stracciate di un passato interno che stava all’esterno e che abbiamo odiato, denigrato e combattuto, stravolto.
Immagino quanti con la camera a sud nella propria storia d’infanzia, adesso costretti nelle zone rosse tra Milano e Bologna, desiderano semplicemente l’aria, essere ora e qui tra i vicoli silenti di questo borgo spopolato, sospirando una Pasqua svanita, la gita fuori porta per oltrepassare le acque dopo la fuga dall’Egitto schiavista e inquinato, l’atmosfera, il pneuma spirituale e materiale del Lunedì dell’Angelo, a Pasquetta, oltre le catene del virus che ha annullato il respiro della folla, l’ossigeno delle persone.
E respirare piano l’odore dell’aglio che cresce in questi campi e matura nel tepore primaverile, e masticare l’erba amara in mezzo ai prati che sta sotto gli ulivi e che è di un verde intensissimo.
C’è un momento di fortissima malinconia davanti a questo luminoso Calvario di Papaglionti dove Pasqua è ritrovarsi insieme oltre ogni zona rossa, tra le archeologie rupestri di fedi e credenze svanite.
Nella pagina antiquata e persino anacronistica di una biografia, anima mundi di un piccolo paese travolto dal fato, un terremoto, un’alluvione, là dove nonostante tutto il virus non è ancora arrivato. E forse mai ci andrà.