Festa della Repubblica tra Nord e Sud dopo la Pandemia: a chi appartiene il futuro dell’Italia?

1 giugno 2020, 19:00 100inWeb | di Vito Barresi

In una nuova Italia che ha bisogno più che di un “lifting”, di un trattamento terapeutico speciale, cioè di una cura efficace e pianificata lungo l'arco di almeno due quinquenni, sì resta abbastanza stupiti, per non dire talvolta basiti, del serpeggiante e incombente pericolo di dimenticare ancora una volta il Mezzogiorno, la peculiarità dei suoi problemi strutturali e infrastrutturali che mai, come adesso, reclamano di essere integrati e reimpostati oltre ogni inefficiente e sbagliato “spacchettamento” a frammentazione regionalista.


di Vito Barresi

È questo un pericolo reale che nasce dall'impressione di voler fare colore, giocare a menar il can per l’aia, più che approfondire seriamente per affrontare responsabilmente, le pur nettissime “differenze” d’impatto sanitario e virale che si sono registrate durante lo scoppio e l'espandersi di una pandemia che ha avuto il suo unico e principale focolaio geografico nel settentrione industriale e produttivo, finanziariamente dominante, sostanzialmente nelle tre regioni economicamente più forti e sanitariamente più attrezzate: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

Preoccupazioni di un’ennesima delusione che, del resto, nascono anche dai caratteri storici del ceto politico attualmente in sella al comando del Paese - alquanto incline a trasformare in immediata rissa mediatica, propaganda di basso conio, il censimento reale dei danni provocati dalla malapolitica leghista e berlusconiana - continuando a far finta che le vere responsabilità di una tragedia pari ad una guerra, che ha causato oltre trentacinquemila morti in pochi mesi siano, piuttosto il frutto del destino cinico e baro, della sorte e della casualità e non, invece, l’esatto prodotto matematico e ingegneristico di un modello di sviluppo fortemente sbagliato, diseguale, concentrazionario, energivoro, climaticamente dannoso, messo in piedi a vantaggio del Nord ai danni del Sud.

Per cui se deve esserci una svolta, come viene più volte declamato dall'attuale maggioranza di governo e dalle forze politiche che alla rinfusa la compongono, appare evidente che non si può ancora una volta scartare il Sud dal rilancio del Paese.

E ciò perché, ora o mai più, se non si vuole che l’Italia si stacchi materialmente dal resto dell’Europa, il Paese nel proprio intero ha bisogno del suo insieme e dell’apporto aggiuntivo di un Mezzogiorno inteso in quanto valore che non sia più sacca di arretratezza, palla al piede, bensì volano e centro di una ripresa a raggio euro-mediterraneo e ad alta qualità tecnologica e green.

Non si può sfuggire da questo tracciato: dare al Mezzogiorno ruolo e funzione di asse e pilastro di un nuovo modello di sviluppo italiano e nazionale.

Fatto e scelta che appaiono tanto più necessitate alla luce delle valutazioni strategiche del cuore e della mente europea, quella tedesca, a cui si è andata in queste settimane pandemica aggregandosi anche la “superpotenza” francese, che collocano l’uscita possibile da questa crisi, in uno scenario profondamente capovolto dei rapporti di forza convenzionali consolidati nel post guerra fredda, fin qui a forte svantaggio e penalizzazione per l'Unione Europea, rispetto a Stati Uniti, Russia, Cina, India, e da par suo deliberatamente auto esclusa dal gioco, la Gran Bretagna della Brexit, ricollocandoli nel solco di rinnovati e inediti rapporti tricontinentali.

In questo quadro, ancor di più dopo l'epidemia di coronavirus, la parola chiave torna ad essere “riposizionamento”, ricollocazione intelligente e dinamica nello scacchiere non già di una dottrina globalista pesantemente incrinata dalla guerra virale, quanto un ritorno evolutivo alla logica tricontinentale, in cui il vecchio continente europeo si ripropone con una leadership attiva e autorevole, nella geografia e nella politica internazionale, proprio in un mondo in tumultuosa e rapida evoluzione, ad alto ed intenso mutamento tra il 2020 e il 2050.

In questo clima, che si è via via chiarificato nello scorrere delle lunghe e angoscianti settimane della pandemia, tra l'altro scaglionata e quindi temporalmente differenziata tra continenti e Stati, c'è chi è arrivato prima degli altri al superamento della confusione, del disorientamento, acquisendo una visione generale, più certa e oggettivamente ancorata alle tendenze e alle previsioni - di fatto individuando alcune soluzioni nuove - dell'assetto del mondo su cui anche in Italia bisognerà affrettarsi a prenderne dovuta ed adeguata conoscenza.

Incarico che tocca primariamente alla politica e, con particolare acume e responsabilità, agli analisti e ai giornalisti, adeguatamente formati e culturalmente attrezzati, incaricati di divulgare e comunicare correttamente orientamenti e indirizzi.

Nessuno si illuda che l'Italia possa finalmente integrarsi se non livellando squilibri e deficienze tra regioni e regioni.

Sarà, dunque, non solo anacronistico ma anche offensivo tornare a parlare superficialmente di un macchinoso “regionalismo differenziato”. Che avrebbe più del virus la forza di annientare le intenzioni di rilancio e rinascita di Stato, Nazione e Società italiana.