Lasciate ogni bagaglio voi che entrate ad Acerentia antica. Se non avete guardato il vostro l’orologio, se ancora nessuno ha regolato al polso le lancette ferme sul tempo reale, beh, allora capirete che siete proprio arrivati a destinazione. E per giunta nell’attimo in cui l'orbita del movimento terrestre, va esattamente alla velocità in cui qui la luce coprì ogni cosa animata e inanimata del passato. Solo dopo questo istante vi converrà aprire gli occhi su quanto può magicamente vedersi ad Acerenthia. Borgo antico e solitario, per quanto agevolmente fuori mano, misteriosamente vivo ed eloquente nella scocca eterna di una propria forma originale.
di Vito Barresi
Acherontia scrisse il Rohlfs “centro d’ellenismo” che marcò la “persistente grecità della zona”. Anche se poi furono i tecnici dell’Esac a scavare in una vigna divelta e trovare i resti di un vetusto insediamento, tra scheletri e reperti, orciuoli e lucernette, vasellame grezzo e decorato, monete e utensili forse d’epoca romana, che si disse alla stampa eccezionale, mentre il sindaco pro-tempore telegrafava alla Sovraintendenza ai Monumenti della Calabria già nel 1984 assente in linea, che in quegli uffici colti di Cosenza se ne infischiava fosse proprio come oggi 2020, anno in cui i cartelli declamano ancora Parco Archeologico di Akerentia, vieppiù sbiancati dal sole e sfondati da ondate di calore estivo.
Attualmente vi informiamo che qui tutto è in abbandono, senza alcuna manutenzione, indecorosamente assediato da immondizia e insicurezza, lasciato al degrado da autorità statali, tra cui primeggia la burocrazia vasta e umbratile del Ministero dei Beni Culturali in Calabria, una sorta di esercito di antiquari pubblici, di Stato e di governo, che amministrano archeologia e monumenti di una regione saccheggiata e derubata da tombaroli con il colletto bianco e mercanti di reliquie col cappello.
Sotto l’insegna doganale di Acheronthia siamo a un passaggio di confine in cui si entra senza passaporto, superando invisibili barriere, semplicemente scalando a vista una montagna scampata a sprofondi geologici paleolitici.
Sconosciuta ai turisti, che corrono verso la Sila agognanti frescure e refrigerio, la quantità di storie che qui si possono immaginare guardando i resti di questi muri a secco incastellati.
Qui batte l’ora antelucana di un picco conquistato dai coloni greci che ancora offre un primo piano su ultime stanze di una vita quotidiana mezza età moderna cancellata per sempre dai tremuoti settecenteschi e dalle migrazioni ottocentesche delle Tre Calabrie verso le ardimentose Americhe.
Nell’Antica Cerenzia si possono leggere in filigrana gli “annales” di microstorie comunitarie rurali, cancellate prima d’ogni cancelletto elettronico, quello stesso che fa un po’ sorridere al rabbrividire del genocidio dei genius loci che qui si è perpetrato con naturale rassegnazione, dopo che gli usci di legno e i portali di pietra erano rimasti aperti forever, lasciando fantastiche scie di miraggi tra i calanchi, scale d’interno che salgono a serpentina stretta ai loro tetti, verso i propri soffitti di travi scomparse per vedere il fiume Lese scorrere in fondo alla vallata
E in alto, sempre più in alto si vede soltanto il cielo sopra Acerentia.
Perché Akerentia non è uno scoglio ma una conchiglia fossile adagiata su un crinale di roccia fluviale, il retroposto di un viaggio ad Ixland senza il peyote di Don Juan.
Un’allucinazione monastica, cistercense e rupestre, che dipana la sua pellicola in un deserto abbagliante senza più il buio della notte. Se non quella di un rosso plenilunio che si innalza maestoso sul calendario azzurro del Mar Mediterraneo.
Acerentia è un posto che non ha più bisogno di nessuno per proteggere il suo territorio dal silenzio e dalla solitudine, dai nemici e dagli invasori, similmente assoluta e impenetrabile come una rocca disegnata su un foglio da Escher, I Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer tra la polvere al caucciù della Bicocca, chiusa tra anfratti e crepe di un greto che s’innalza a roccia precipitando nel limbo di epoche remote, Pumentum forse quand'era Pandosia.
Nell’atlante universale della città scomparse c’è anche questo luogo, proprio come lo ha raccontato amorevolmente lo storico locale Giuseppe Aragona nel suo libro immenso di notizie dettagli, La Tipografica Crotone, edizione fuori commercio.
Cosa dissero i geografi a proposito della pianta ‘urbana’ di questo paese posato su una cresta di gallo che canta alla collina, sembra il lembo di un nobile stendardo, una scheggia di ossidiana tagliente che attraversa la valle di due corsi che sposano le proprie acque, convolando in felici nozze in un solo letto di fiume che scorre verso la foce.
La visione di un luogo, l’incanto di un sito abbandonato tra studi, scavi e ricerche si presenta apparecchiata da un anonimo scenografo su un set cinematografico, il libretto d’opera di un teatro tra cielo e terra, pendii e rogge sotto contrada Neri, trasparenza d’aria, atmosfera essenziale, quasi al limite del respiro, dopo che ripidi gradoni in grigio ti mozzano il fiato alla scalata e le gambe alla discesa.
Che fare di questo luogo sperduto in un anfratto planetario del Mediterraneo? Grandi tele sulla luminosa chiarezza del borgo nascosto, alchimia di verde in cui svetta un’Acertentia che è installazione per se stessa, in quanto “site-specific” con le costruzioni architettoniche del passato.
Ridisegnare i piani e gli interni delle antiche dimore contadine, la storia vescovile e clericale, le disfide tra Folernsi e Basiliani, tra piazze e cattedrali con installazioni di libri antichi e nuovi, tra foglie d’alberi e pile di carta stampata che, senza stare sotto il peso del cemento, per ascoltare la vibrazione del mondo vegetale e il canto del regno animale.
Proiettare i visitatori nella dimensione contemplativa del cristianesimo monastico, tra le grotte veterotestamentarie e la rappresentazione delle rovine di un mondo millenario in cui rimbalza un altro sguardo sul presente.