S. Sebastiano va a Parigi. Storia di un meraviglioso capolavoro che dalla povera Calabria entra nel fasto del Louvre

24 ottobre 2020, 11:30 100inWeb | di Vito Barresi

A Parigi nelle sontuose sale della Hall Napoleon del Louvre è cominciata davvero l’inaspettata stagione di gloria per quel che già qui tutti chiamano le Sebastien, la statua arrivata nel più grande e prestigioso museo del mondo dalla diocesi di Oppido Mamertina, la meravigliosa statua di San Sebastiano di Terranova di Reggio Calabria.


di Vito Barresi

Non si parlerà d’altro nelle cronache artistiche e mondane della Ville Lumiere se non di lui, il S. Sebastiano resuscitato all’ammirazione, venuto come per miracolo dalla povera Calabria, dall’ultima porzione geografica dell’Italia, la città prima e oltre lo Stretto di Caronte, quel segmento umano, sociale e culturale che da sempre è bolgia dantesca nei millenni sempre uguale.

I francesi incuriositi e sensibili ormai trepidano quando qualcuno racconta tutta per intero la rocambolesca e vera storia di Sainte Sebastien che sembra quasi incredibile, simile a una favola di Charles Perrault.

Esposta nella mostra dedicata alla scultura italiana del RinascimentoIl corpo e l'anima, da Donatello a Michelangelo”, a sentire i primi commenti entusiastici, i transalpini cosmopoliti se ne innamoreranno, perché bello nelle sue masse muscolari delicatamente sviluppate, ferito e martirizzato ma in sofferta posa equilibrata, candido dal volto trasognato e limpido, splendente con la sua testa ricca di boccoli, precise modanature che danno volume e ondulazione ai capelli lunghi da accarezzare, incantato con occhi socchiusi che senza enigma e con sincerità disarmante gettano uno sguardo perpetuo sul naturale vigore esistenziale, solo un micronico bagliore di pathos pensoso, la sintesi perfetta di un’eleganza adolescente in una età di vita di pulsioni tumultuose, un attimo inebriante di eterna felicità.

Il San Sebastiano scolpito dal maestro fiorentino Benedetto da Maiano, lo stesso venerabile artista che scoprì e formò nel suo “atelier” fiorentino l’immortale Michelangelo Buonarroti, è un delicato quanto potente nudo maschile che lascia attoniti e sospesi i visitatori parigini, affascinati dalla calda e sensuale attenzione al reale, quasi ipnotizzati dalle “siglature” formali più ardite, dall’essenzialità di tessuto del perizoma che si ripiega e si raccoglie su se stesso, una raffinata stoffa di alta classe figurativa, magicamente attratti dalla tenera e sana corporatura di un apostolo della fede che diventa modello di armonia e umile sapienza, che emana la forza sicura e rasserenante della perfezione, per niente distola dalla sofferente trafittura del martirio.

Quante generazioni son dovute passare nella penombra della storia dell’arte italiana ed europea prima che Sebastiano, il figlio reietto ed illegittimo gettato nella Cayenna borbonica del barocco meridionale, mezzo sefardita e mezzo arabo, mezzo francese e mezzo spagnolo, potesse stringere di nuovo nelle sue prigioniere le mani virtuose, delicate e possenti, del padre legittimo, il grande artista fiorentino, da cui nacque lui con bella chioma e i lineamenti raffinatissimi che danno un tocco di sensuale dolcezza alla statua del santo trafitto, martire cristiano tanto amato dalla devozione popolare calabrese e “reggitana”.

Dove è nato Sebastiano, in quel di Firenze, pare ancora di udire le voci concitate di bottega, l’armonia di fatica e soddisfazione per il lavoro destinato al conte di Terranova. Fu un giorno dell’anno tra il 1490 e 91, quello in cui lui venne finito alla luce nella celebre bottega di Via del Castellacelo.

La stessa fucina dove Mastro Benedetto teneva da apprendista il suo giovane allievo Michelangelo Buonarroti, l’adolescente timido che già prometteva ciò che poi sarà la spavalda “annunciazione” della sua creatività, che si dice quel mattino aiutò anche i lavoranti e i facchini a imballare e impacchettare il San Sebastiano di committenza Corréale in partenza per il Sud, ma che a differenza di altri sepolcri e altari non si sarebbe fermato nella capitale del Regno per essere sistemati nella cappella Correale di Monteoliveto.

Il suo destino era altrove, ancora più a sud, a proseguire il suo viaggio sino al feudo di Terranova del conte Correale, al monastero celestino di Santa Caterina d'Alessandria, nella cui chiesa il conte aveva appena fondato, in concomitanza con la cappella napoletana (1490), un monumentale loculo funerario in proprio onore, qui dove poi morì effettivamente, non a Napoli, trovando requie nel santuario.

Sebastiano ha aspettato, in saecula saeculorum, l’ora in cui finisse l’oblio che è servito a fargli conquistare un posto unico e assoluto oggi al Louvre, domani al Castello Sforzesco dei Visconti e degli Sforza.

Perché solo di recente il desiderio del padre divenisse per lui felice e appagante realtà, non più rassegnato complesso di paternità perduta, dopo che per mezzo millennio paziente come un parente biblico di Giobbe, persino seraficamente stoico nel sopportare le mutilazioni inflitte, mutilo di buona parte delle gambe, folkloristicamente affrescato con infantile e confusa policromia, era rimasto relegato in uno di quei luoghi che i grandi esperti d’arte italiana, spesso troppo superficialmente, lasciando magari a un cataclisma scavare sotto la crosta ricca di reperti e tesori, amano disinvoltamente, con qualche vezzosità accademica, etichettare una “geografia eccentrica”.

Che poi altro starebbe a dire, cioè che Sebastiano, scampato miracolosamente al terribile terremoto del 1783, ha vissuto tutto questo tempo in Calabria, in un curioso borgo mediterraneo, un diamante surreale che sembra un trompe l’oeil di un quartiere di Sabudia nell’agro Pontino, a Terranova Sappo Minùlio, piccola ma suggestiva reliquia di modernariato urbanistico in provincia di Reggio Calabria.

Qui il marmo, più volte manipolato, a suo modo restaurato e ritoccato dall’arte naif degli usi e delle consuetudini della religiosità popolare, giaceva sconosciuto ed orfano, gettato nella penombra di un sottoscala neanche della grande storia dell’arte, fin quando qualcuno, nel 1997, assegnandone erroneamente i natali ad Antonello Gagini, ha spianato la strada per far tornare al padre il figlio.

Correva l’anno 2000, pietra miliare di una tumultuosa new age della globalizzazione, quando finalmente nel 2002, per il piccolo Sebastiano, rimasto lungamente fanciullo, veniva ufficialmente riconosciuto il titolo anagrafico, lo stato civile che gli spetta di diritto, la patrilinearità di un capolavoro autografo di Benedetto da Maiano, scultore nato nel 1441 e scomparso a Firenze nel 1497.

Sebastiano ora che è arrivato a Parigi, nonostante sia diventato adulto continua a stare timido ma orgoglioso nella mostra “The Body and Soul: Italian Renaissance Sculpture da Donatello a Michelangelo”. Nella seconda metà del Quattrocento (XV secolo) gli artisti erano alla ricerca di espressioni nuove per raffigurare il dinamismo del corpo umano; quel sentimento oggi è ancora emozione che lega figure apparente distanti ma vicinissime nel tutto scorre della storia. D’altra parte S. Sebastiano non si affacciava con il suo sguardo sulle misteriose acque in cui giacevano i bronzi a Riace?