Pubblichiamo la riflessione apparsa sulla rivista diocesana Notre Eglise del vescovo di Bayonne, monsignor Marc Aillet. L’articolo è apparso in Italia su TEMPI, diretto da Emanuele Boffi, che ringraziamo.
di Monsignor Marc Ailett*
Viviamo una situazione inedita che non smette di inquietarci. Senza dubbio attraversiamo una crisi sanitaria senza precedenti, non tanto per la vastità dell’epidemia quanto per la sua gestione e il suo impatto sulla vita delle persone.
La paura, che si è impossessata di molte persone, è alimentata dal discorso ansiogeno e allarmista delle autorità, rilanciate dalla maggior parte dei grandi media. Ne deriva una difficoltà crescente a riflettere, una mancanza di reazione in rapporto agli eventi, un consenso quasi totale dei cittadini alla perdita di libertà fondamentali.
In seno alla Chiesa, si osservano reazioni quanto meno inattese: coloro che denunciano sempre l’autoritarismo della gerarchia e contestano il magistero in modo sistematico, in particolare sui temi morali, si sottomettono oggi senza protestare allo Stato e sembrano aver perso ogni spirito critico, si ergono a moralizzatori, colpevolizzando e denunciando senza appello coloro che osano porre delle domande mettendo in discussione la doxa ufficiale o difendere delle libertà fondamentali.
La paura non è buona consigliera: essa conduce ad atteggiamenti sconsiderati, aizza le persone le une contro le altre, genera un clima di tensione o di violenza. Così rischiamo di implodere!
Vedere, giudicare, agire: queste tre tappe, ben conosciute dall’Azione cattolica e presentate da san Giovanni XXIII nella sua enciclica Mater et magistra, come caratteristiche della riflessione sociale della Chiesa, potrebbero ben chiarire la situazione di crisi che stiamo attraversando.
Vedere, cioè aprire gli occhi sulla realtà nella sua interezza e smettere di ridurre il proprio punto di vista alla sola epidemia. L’epidemia di Covid-19, è vero, ha causato soprattutto durante la prima ondata delle situazioni drammatiche e ha sfinito il personale sanitario. Ma come non relativizzare la sua gravità, guardando in modo prospettico gli altri disagi che troppo spesso vengono passati sotto silenzio?
Ci sono innanzitutto le cifre, che vengono presentate come rivelatrici della gravità inedita della situazione: dopo il conteggio quotidiano dei decessi durante la prima ondata, c’è ora l’annuncio dei casi “positivi”, senza che si possa distinguere tra coloro che sono malati e coloro che non lo sono.
Non bisognerebbe fare un paragone con altre patologie altrettanto gravi e più mortali, di cui non si parla e i cui protocolli sono stati rinviati a causa del Covid-19 causando peggioramenti talvolta fatali? Nel 2018, ci sono stati 157 mila morti di cancro in Francia! Ci è voluto del tempo prima che si parlasse del trattamento disumano che è stato imposto nella case di riposo alle persone anziane, talvolta chiuse a chiave nelle loro stanze, con il divieto di ricevere visite dai familiari: le testimonianze sui problemi psicologici e i decessi prematuri dei nostri anziani abbondano.
Si parla poco dell’aumento degli stati depressivi in soggetti non predisposti: gli ospedali psichiatrici sono sovraccarichi, le sale d’attesa degli psicologi piene, segno che la sanità mentale dei francesi peggiora in modo inquietante e questo il ministero della Salute lo ha riconosciuto pubblicamente.
Si denuncia un rischio di “eutanasia sociale”, quando si stima che 4 milioni di cittadini sono in una situazione di solitudine estrema, senza contare i milioni di francesi che, dal primo confinamento, sono scivolati al di sotto della soglia di povertà. E che dire delle piccole e medie imprese, dei piccoli commercianti strangolati che sono costretti a fallire? Tra di loro si contano già diversi casi di suicidio. E il divieto di celebrare il culto, anche quando vengono prese misure sanitarie ragionevoli, con le Messe ridotte al rango di attività “non essenziali”: questo non si è mai visto in Francia, salvo che a Parigi sotto la Comune!
Giudicare, cioè valutare la realtà alla luce dei grandi principi che fondano la vita sociale. Poiché l’uomo è “unità di corpo e anima”, non è giusto fare della salute fisica un valore assoluto, fino a sacrificare la salute psicologica e spirituale dei cittadini, impedendogli in particolare di praticare liberamente la loro religione, laddove l’esperienza prova che essa è essenziale per il loro equilibrio.
Poiché l’uomo è sociale per natura e aperto alla fraternità, è insostenibile spezzare le relazioni familiari e amicali e condannare le persone più fragili all’isolamento e all’angoscia della solitudine, così come è ingiusto privare gli artigiani e i piccoli commercianti della loro attività, dal momento che contribuiscono nelle nostre città e cittadine alla convivenza sociale. La Chiesa riconosce la legittimità dell’autorità pubblica, a condizione però che, secondo una giusta gerarchia dei valori, essa faciliti l’esercizio della libertà e della responsabilità di ciascuno e promuova i diritti fondamentali della persona umana.
Ormai abbiamo fatto prevalere una concezione individualista della vita e, aggiungendo obbrobrio a obbrobrio, abbiamo colpevolizzato tutte le persone, trattandole come bambini, brandendo l’argomento specioso della vita dei malati in rianimazione e dei medici stremati. Non dovremmo prima di tutto riconoscere le mancanze di una politica sanitaria,che ha tagliato i fondi e infragilito le strutture ospedaliere, in termini di personale curante insufficiente e mal remunerato e di posti letto in rianimazione regolarmente soppressi?
Infine, poiché l’uomo è stato creato a immagine di Dio, fondamento ultimo della sua dignità – «Tu ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te» (Sant’Agostino) – è sbagliato sottostimare la libertà di culto che resta, nella legge che separa la Chiesa dallo Stato, la prima di tutte le libertà fondamentali alla quale i cittadini, avvinti dalla paura, hanno abdicato senza discutere. No, l’argomento sanitario non giustifica qualsiasi cosa.
Agire. La Chiesa non è obbligata ad allinearsi a un discorso ufficiale riduttivo e zoppicante, ancora meno a farsi tramite dello Stato, senza con questo mancare al rispetto e al dialogo o incitare alla disobbedienza civile. La sua missione profetica, al servizio del Bene comune, è quella di attirare l’attenzione delle autorità pubbliche su questi gravi disagi legati direttamente alla gestione della crisi sanitaria.
Certamente bisogna sostenere il personale sanitario e soccorrere i malati – la prudenza nell’applicazione delle misure di sicurezza fa parte dello sforzo nazionale che riguarda tutti – ma senza imputare in modo troppo prematuro ai cittadini la responsabilità delle loro difficoltà.
In questo senso, bisogna riconoscere la professionalità del personale sanitario che si china sui malati e incoraggiare la generosità dei volontari che si impegnano nel servizio dei più deboli e in questo i cristiani sono spesso in prima linea.
Bisogna ancora far sentire le giuste rivendicazioni di coloro che sono disperati nel loro lavoro, penso agli artigiani e ai commercianti, e saper denunciare una disuguaglianza di trattamento e non aver paura di relativizzare l’argomento sanitario brandito in maniera insistente per chiudere i piccoli commerci e vietare le celebrazioni cultuali pubbliche, mentre le scuole, le grandi piazze, i mercati, i trasporti restano aperti anche se con rischi potenzialmente più grandi di contaminazione.
Quando la Chiesa si batte per la libertà di culto, difende tutte le libertà fondamentali che sono state confiscate in modo autoritario, anche se temporaneo, come quella di andare e venire, riunirsi per lavorare al Bene comune, vivere del frutto del proprio lavoro, condurre una vita degna e piacevole.
Se bisogna “dare a Cesare quel che è di Cesare”, bisogna anche “dare a Dio quel che è di Dio” e noi non apparteniamo a Cesare, ma a Dio! È il senso del culto reso a Dio che ricorda, a noi e ai non credenti, che Cesare non è onnipotente. E bisogna smettere di opporre in modo dialettico il culto reso a Dio, iscritto nei primi tre comandamenti del Decalogo, all’amore verso il prossimo: essi sono inseparabili, e quest’ultimo è fondato sul primo!
Per noi cattolici il culto perfetto passa per il sacrificio di Cristo, che si rende presente nel sacrificio eucaristico della Messa che Gesù ci ha comandato di rinnovare. È unendoci fisicamente e insieme a questo sacrificio che noi possiamo presentare «i nostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il nostro culto spirituale» (Rm 12,1). E se è autentico, il culto si realizzerà in modo necessario nella passione del bene dell’altro, nella misericordia e nella ricerca del Bene comune. Ecco perché è profetico e imperioso difendere la libertà di culto. Non lasciamo rubare la fonte della nostra Speranza!
*Vescovo di Bajonne, Francia