Tanto qui si campa d’aria, oltre che per scrivere anche per dire solo che nel Cavalierato di Enrico Parisi c’è tutto un merito profondo, l’arte talvolta incomprensibile della buona e aspra terra calabrese. Arte che non è mai un’estetica ma sempre un immenso e perpetuo lavoro sociale, prima ancora di sguardo e di orizzonti che di zappa. Posti che mai si trovano alla fine di una storia ma eternamente all’origine di braccia e muscoli da capitano che sono poi quelli che servono davvero a domare l’ambiente immutabile di un passato gigantesco. Auguri tutti, a Enrico il Cavaliere senza Tavola Rotonda, dai luoghi in cui le forme degli accampamenti umani sono da sempre un poco sgembe, curve a gomito, quasi, proverbialmente quasi, comunque scomode.
di Vito Barresi
La faccia da Cavaliere d’altri tempi, con i suoi baffetti, e il pizzo, di cappa e spada, certa memoria alla Dumas, nel senso più alto dei romanzi stessi, Enrico Parisi se la porta con sè di suo, di natura.
Anche quando esibisce, virtualmente, l’ultimo scatto a foto tessera sul suo account social, coniato di zecca da Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, dopo il conferimento ricevuto sul finire dell’anno trascorso dal Presidente Mattarella, “per il suo appassionato contributo alla promozione di pratiche di sostenibilità sociale, ambientale ed economica.”
Enrico è un giovane calabrese, uno di quelli che se ne frega apertamente, se ne frega di tutto si, della volgare, persino sciccosa e raffinata, raffigurazione del barbaro terrone, manco più brigante troppo romantico Amedeo Nazzari, in esclusiva scoop giornalistico 'solocalabria'ndranghetista', che conferma il sospetto, l'ombra scientista e lombrosiana, di quelli che in ultimo, che volete si sono fatti riconoscere, calabresi no no no sono comunque dei poco di buono.
Invece, dovrebbero solo rosicare lor signori del cabaret politicamente corretto di prima e seconda serata, davanti al curriculum di alto livello di questo millennials calabrese, anzi per essere il più possibile aggiornati, il ritratto anagrafico che tutti vogliamo della nostra migliore ‘next generation Ue’.
Parisi è già da anni un nuovo protagonista dell’attualità calabrese. Uno di quei tanti volti dell’oggi che ha lo sguardo al futuro. Uno di questa regione che cresce sul proprio suolo, sottosuolo di un Sud Europa che fa sempre tardi a entrare nella post-storia di un mondo che, per quanto caduto nel dominio della prevedibilità, ma poi non tanto, riserva ancora qualche spiraglio all’avventura e all’intrapresa umana della costruzione sociale, del miglioramento locale e universale.
Laureato in Economia Aziendale e Management alla Bocconi di Milano, vanta una preziosa esperienza in Brasile con la Camera di Commercio di Rio de Janeiro nel settore vitivinicolo, nel 2016 sceglie di tornare alla terra, in Calabria, a dare una mano nell’azienda di famiglia al differente impegno di coltivare e produrre olio biologico “D.O.P Bruzio Colline Ioniche Presilane” da tre generazioni.
Qui ha promosso iniziative di spicco e successo che diventano immagine, testimonianza, modello imprenditoriale come è stato per “+ che olio coltiviamo cultura”, con l’obiettivo centrato su progetti di sostenibilità sociale, economica ed ambientale.
E per farlo si cercano sinergie tra storie e risorse con la cooperativa “I figli della luna”, che hanno progettato il primo orto sociale di Corigliano-Rossano, che si realizza al grido di “crescere insieme per crescere meglio”. I campi a pomodori e peperoni sono divenuti il sussidiario di una ritrovata “pedagogia agricola”, che aiuta persino i bambini a comprendere l’importanza dell'economia circolare, infondendo un significato donativo ai loro frutti, confezionati proprio nelle ore della loro maturazione, e poi scambiati sui mercati per raccogliere la moneta utile per finanziare la Cooperativa sociale.
C’è in tutto questo uno slancio che fa diversa l’azienza di campagna, l’impresa agro-alimentare, un qualcosa che evidentemente è dentro i nuovi orizzonti dell’agricoltura mediterranea, europea, africana, asiatica, sud americana.
Un ritorno alla terra alla fine di una lunga epoca di fuga dalle campagne del sud, sintomo di un risveglio diffuso, di un movimento vasto e vivo in tutto il Mezzogiorno d’Italia, in cui lui fa meglio di altri baroni rampanti dei tempi della colonizzazione del latifondo.
Quando da parte dei piccoli coltivatori con tre o quattro ettari di terra arida e scoscesa, non bastarono nè la forza della sopravvivenza nè l’economia della sussistenza e tutto fini nell’abbandono e nell’emigrazione. Tanto che l’allontanamento dalla vecchia agricoltura di un tempo, la madre terra si è trasformata in una autentica catostrofe culturale, identitaria, sociologica, travolgendo le basi stesse dell’esistenza stessa di tutte le comunità tradizionali calabresi.
Si diventava vecchi che si era ancora giovani tra i solchi di quelle stagioni del debbio e dell’aratro. Oggi anche gli anziani contadini di Calabria, dopo una dura vita di sudore e fatica, possono tornare a credere che qualcuno resterà a continuare la secolare tradizione della transumanza, facendo pane e farina con l’acqua pulita del mulino, olio nel frantoio di pietra e prima premitura, vino con i vigneti senza zolfo, oliveti senza xilella nè chimica, tra campi e vallate ben coltivate, che limitano la dolce e 'selvaggia' espansione del fico e del fico d’india.
Oltre a quei fili spinati naturali, oggi c’è più intelligenza, sia d’interesse che di passione, che riavvia la speranza che questo accada in libertà e coraggio. Senza il freno storico dei grandi feudatari che scorribandavano negli altipiani silani tra laghi elettrici e patate a lampadine, quei padroni dell’ente benefattore che dopo la poderosa, ma anche eccessivamente modernizzante, Riforma Agraria, lasciaron oltre a rovine anche spaventosa entropia ed enorme confusione.
Se cambiare il volto dell’ecologia rurale di una delicatissima e fragile Calabria antica e nobilissima è il pensiero di gente come Enrico ben venga sognare.
Come in un film in cui nel bel mezzo della scena madre sempre ‘arriva 'u giuvinu..’ che attraversa non solo le ampie fiumare della piana di Sibari ma anche i felpati Giardini del Quirinale per raccogliere il primato e l’onoreficenza similmente a un mitologico olimpionico della Magna Grecia.
Lo stesso passo adelante con cui il neo 'Cavaliere della terra di San Nilo' non disdegna di bere un buon whisky a Buenos Aires, "Argentina, alle 2 di notte, per non morire assiderati e... gli stivali con epiche suole consumate non li trovo più…"