Perchè tornare a Ferramonti di Calabria, 27 gennaio “giorno della memoria”? Ferramonti di Tarsia, provincia di Cosenza, campo di concentramento 'emerso' dopo decenni di occultamento, ha nel suo spazio fisico ai margini della geografia della grandi tragedie del Novecento, la simbolicità universale di un luogo spirituale che custodisce tante storie di vita, le umanità perdute e ritrovate, il monito, per una regione intera, la Calabria di oggi, dove spesso imperversa la violenza, la sopraffazione antidemocratica, l’ingiustizia sociale ed economica con la faccia della ‘ndrangheta e dell’ipocrisia politica.
di Vito Barresi
27 gennaio, ricorrenza che permette di includere, adesso fatto 'incredibile' rispetto allo stesso evento storico complesso e stratificato, in un abbraccio della memoria, i perseguitati politici, i militari italiani che non hanno voluto combattere a fianco dei nazisti, gli omosessuali, i rom, i semplici nemici del razzismo disumano, cioè l'insieme dei ritratti possibili delle innumerevoli vittime di odio e sterminio.
Fu il giorno in cui i soldati dell’Armata Rossa demolirono i cancelli di Auschwitz per scoprire (era davvero la prima volta?) l’orrore di quel campo di concentramento. Non ritualmente, più che mai dopo la lunga fase iniziata con lo sconcertante e ancora misterioso diffondersi della pandemia Covid-19, ogni anno ci chiediamo quale sia il modo più giusto per continuare sempre a ricordare.
A sollecitare l’opinione pubblica a non comportarsi come se si trattasse della memoria di un oscuro passato che si è totalmente dileguato, per tenere conto che le radici politiche, storiche e culturali dell’antisemitismo continuano ad esistere e a ramificare sotto mentite sembianze.
Per tali motivi, e soprattutto perchè ogni ripresa dei rigurgiti razzisti, rappresenta un pericolo effettivo per una democrazia e per la civile convivenza, forse con un pizzico di provocazione, c’è chi sostiene di cambiare il nome della 'Giornata della Memoria' in Giornata per la vigilanza in difesa della democrazia.
Non va da sé, ma molti italiani si convinsero che la Resistenza avesse cancellato le malefiche pagine delle leggi razziali e della loro spesso feroce attuazione programmata e scrupolosa, continuando a credere a quella menzogna, creata ad arte dal regime della comunicazione fascista, che attraverso la propaganda edulcorata spacciava il volto di un’Italia vittima del nemico razziale ebraico e plutocratico.
E poi, in qualche modo la sua scia, la cosa insopportabile, anche nel dopoguerra, di un Paese che si auto assolveva fin troppo sbrigativamente, in quanto moralmente distante dalla dittatura, che di suo aveva sopportato l'occupazione e gli aguzzini fascisti, riscattandosi con la gloriosa lotta di Liberazione dall'invasore tedesco.
Sospesa tra il falso e il vero, sorse anche da questa 'suggestione’, per tanti aspetti molto ideologica, 'il mito della Resistenza' come ebbe a scrivere criticamente Romolo Gobbi, la rimozione e la cancellazione della responsabilità italiana nella campagna di distruzione del popolo ebraico che portò discriminazione, persecuzione e morte in tutta Europa sotto due bandiere, quella tedesca e quella italiana.
Per cui resta ancora la domanda se avrebbe potuto, la Germania, da sola, imporre in tutta Europa la sua politica razziale e omicida, anche prima degli ultimi anni della dittatura nazista, senza la sponda mussoliniana e di quella della monarchia Savoia, la cui storia venne macchiata dalla firma di Vittorio Emanuele III alle nefaste leggi antiebraiche del 1938.
Sappiamo, comunque, che la risposta non trova imputati i molti italiani, compresi generali e funzionari, che si opposero, anche con la propria vita alle scelte aberranti delle dittature e del sistema di dominio nazista e fascista. Ma questo non basta e non ci salva dalla colpa storica che va tenuta in primo piano nel meticoloso lavoro di ricostruzione della vita nazionale tra le due guerre e durante il Regime Fascista.
Perché, in fondo, la colpa è ne le retaggio culturale, sociale, politico, comportamentale, persino religioso, di tanti altri italiani bravissima gente che, negli uffici, nelle scuole, nelle case, nella vita quotidiana, con le loro insopportabili delazioni, contribuirono a fare identificare e arrestare gli innocenti di ogni età e ceto sociale, di ogni genere e religione, coloro che alimentarono la finzione collettiva e di Stato di non vedere e di non sapere, che trovò spessore nella scolorina del rimosso, su storie di uomini e donne dimenticati per lungo tempo in un limbo ingiusto, appena ritornò la libertà.
Shoah fu anche un crimine italiano. Un sequenza di delitti umani, morali e materiali contro le comunità ebraiche del nostro Paese.
Ovunque, in piccoli borghi come in grandi città, che per lungo tempo ha anche inibito una presa di coscenza profonda, autentica, adeguata, tale da ampliare e far condividere collettivamente e unanimente la forza della memoria, e il suo potere di riscatto liberatorio.
Quello stesso che fu dolorosamente e coraggiosamente il vissuto di Primo Levi, quando nel campo di sterminio ove era prigioniero, trovò la forza di resistere recitando a memoria, a voce alta perché lo ascoltasse e in parte lo capisse il suo compagno Pikolo, il dantesco canto di Ulisse: allora "per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono", cogliendo "nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui."