Rileggere Leonardo Sciascia può servire a riscrivere la storia dei rapporti tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta in Calabria? Probabilmente si. Anzi ne potrebbe venir fuori una ben diversa mappa criminale del passato (con ovvie proiezioni sull'oggi), un’inedita lettura della strategia di comando e monopolio della violenza messa in atto dalle ‘elitès’ mafiose dall’una e dall’altra sponda dello Stretto. Per farlo bisogna tornare sui luoghi calabresi seguendo l’itinerario letterario e narrativo del grande scrittore, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita.
di Vito Barresi
Riandando, a piedi, nelle località, visitate e narrate dal romanziere siciliano, lungo il corso del secondo Novecento, da Serra S.Bruno, citata in ‘La scomparsa di Majorana’, a Bovalino ricordata nell'intensissima corrispondenza epistolare con lo scrittore Mario La Cava, in ‘Lettere dal centro del mondo’, viene in primo piano la città del suo iniziale premio letterario, nella scena inquientante e molto 'pulp' del boss e pentito Tommaso Buscetta che, con sarcasmo e tetre allusioni, ironizzava sulla sua presenza e permanenza ‘nelle acque di Crotone’.
Questa è l’epitome di un articolo apparso venerdì 18 aprile 1986 sul Corriere della Sera, un ‘taglio’ nell'insieme che qui ingrandisco, e non a caso, per cercare di comprende il significato autentico e criptico che si nasconde, 'qua e fuori di qua', si direbbe nel gergo della 'leggera', quel riferimento alle acque, che in mitologia e simbologia tanto e oltre vorrebbe suggerire:
"Buscetta parla con voce ferma, pacata. Quale che sia la domanda che gli si rivolge, non si innervosisce, a momenti sembra quasi divertirsene. Come quando l’avvocato di Greco gli domanda di essere stato arrestato dalla Guardia di Finanza, il tale anno, il tale giorno, nelle acque di Crotone. Che cosa vuol dire ‘nelle acque’? - domanda Buscetta: a mollo, sul bagnasciuga, su una barca? E poi - chiarito il senso della domanda - risponde che non nelle acque di Crotone era stato quel giorno arrestato, ma sulla terraferma di Taranto."
La mentalità di Buscetta, osserva Sciascia, restava perfettamente mafiosa, intendendo la propria collaborazione con la legge per quella che poteva essere, non più che una più appuntita tattica, non dissimile da quella applicata in campo criminale, all’interno della stessa famiglia allargata, cioè strumentalizzare la ‘giusta', declinandola, in quanto arma per replicare ai colpi ricevuti dagli avversarsi e vendicarsi.
Per cui, anche in questo caso, quello che, apparentemente, potrebbe leggersi un banale ‘ditirambo' sulle acque di Crotone, inscenato da don Masino, se cioè avesse a che significare in umido, sulla spiaggia o su un natante, forse, serviva ambiguamente a 's/mascherare' due cose in una.
Prima, escludere che a coprire il potente capo del vertice delle famiglie e poi, ancora capo, sebbene dalla parte dei pentiti, intesi infami e traditori, fossero stati ben determinati ‘mammasantissima' della ‘ndrangheta calabrese. I veri e sconosciuti, non altri, vale a dire, se non i capi banda delle ’ndrine di Reggio Calabria, di Locri, di Gioia Tauro, allora, piuttosto quelle di Isola Capo Rizzuto, Cutro, Cirò, Crotone, ecc.; seconda, delimitare e allargare un'area territoriale di 'egemonia mafiosa' dentro il mare che unisce la costa che va da Pozzallo, Ragusa, fin dentro la ‘terraferma di Taranto’, magari a Fasano.
Il messaggio ‘cifrato’ potrebbe, dunque, richiamare l’organigramma nascosto della struttura genetica mafiosa calabrese. Fatto sociologicamente non di poco conto, laddove si dovrebbe minunziosamente ritrovare e decodificare il ‘germoplasma’ più antico, ricostruire storia e dinamiche evolutive dei gruppi primari più remoti, frantumando quelle elucubrazioni che divennero una specie di legge coranica nel codice, stretto in mano, dai più famosi professionisti dell'antimafia, sul tipo ideale del sodalizio mafioso-ndranghetistico.
Altro sarebbe stato, e potrebbe essere ritrovare, connettere e interpolare tra loro, comparativamente, dati ancestrali, certamente, di grande ausilio alle istituzioni in perenne lotta contro la malavita organizzata.
Cioè stabilire come si è formata e come funzionava la primigenia catena di comando, come è nato il bambino che cresce e si evolve fino a cristallizzarsi nella gerarchia suprema, formando il ferro di cavallo, arredando il ‘pentagono’ dei capi dei capi e se, qui sta il senso della rilettura sciasciana, essa poggiasse il proprio architrave nel dominio territoriale e vasto di un grappolo, un mazzo di famiglie, che costituivano il presidio storico più antico e stratificato, situato non altrove nell’arco jonico a sud-ovest dell’intero Mediterraneo, il collegamento, il ponte in terraferma che ha disegnato la sua stessa geografia, con la corda di un legame indissolubile tra Cosa Nostra siciliana e ’ndrangheta calabrese.
Dunque, galeotta fu la 'geografia' della Calabria Jonica, ben 740 km di costa spesso deserta e bassa, con abitazioni abbandonate per tanti mesi durante l’anno, da sempre molto vocata più che al turismo al contrabbando e al 'nascondimento' di covi segreti, caldi o freddi, area logistica al servizio e supporto di ben altri centri decisionali e operativi.
Alla caccia della villa abbandonata, del casale contadino, della dimora accogliente, in cui passò le notti, servito e riverito, il supremo e intoccabile don Masino Buscetta, è plot di un giallo mediterraneo, sceneggiato in esterno giorno/notte, tra il mare di Capo Colonna e Le Castella, la riviera di Strongoli e Cirò Marina, le classiche terre del silenzio e del contrabbando off-shore, di alto bordo, prima di sigarette e poi di droga in fusti, specialmente eroina, proveniente dal Medio Oriente, un grande porto di Gioia Tauro a cielo aperto, totalmente incustodito e privo di ogni sorveglianenza.
Le navi dei contrabbandieri, i velieri e i yacht di lusso, spesso sequestrati nel porto di Crotone, quelli che in cambusa trasportavano zucchero raffinatissimo per nascondere la droga, erano quasi sempre più veloci, vantando potentissimi radar, molto più rapidi e precisi di quelli a bordo delle motovedette della Guardia di Finanza.
Per cui solo dopo tanti sbarchi, alcuni particolarmente plateali e cinematografici, veri colossal, come quando, sulle dune della foce del Neto, giunsero decine di autotreni con rimorchio, per caricare la 'merce' sbarcata all'alba, da alcuni vascelli fantasma, stracolmi di 'bionde', toccava alle Fiamme Gialle scoprire il famoso laboratorio della cosca di Pietro Vernengo, localizzato a S. Leonardo di Cutro, nell’aprile del 1985.
Scrittore di cose siciliane, la più grande isola del Mediterraneo, poi per estensione seconda in Europa, dopo la Gran Bretagna, la Sicilia mafiosa nei romanzi di Sciascia è stata paradigma di mentalità e genotipo di strutture sociologiche mafiose, tutte centrate sul ricamo matrimoniale esogamico della parentela e delle alleanze familistiche tra Sicilia e Calabria.
Certo che, Sciascia, richiamando la fin troppo facile e lussuosa carriera, politica e accademica, in sede nazionale e mondiale, di grandi magnati della ‘antimafia imprenditrice’, trovò sempre ogni buona occasione per ribadire che
“non c’è nulla che mi infastidisca quanto l’essere considerato un esperto di mafia o, come si usa dire, un “mafiologo”, autodefinendosi con un “sono semplicemente uno che è nato, è vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda."
Oggi, ricordandone l’opera nel suo centenario, viene da pensare: guai a mettersi contro la 'casta dei sacerdoti e degli scribi dell’antimafia', contro i roboanti e altezzosi ciarlatani saltinbanco da commissione, pronti ad accusare e lapidare, per grave e pericoloso peccato anti-ideologico e contro propagandistico, quei semplici critici letterati mai proni ai 'diktat' dei riveriti ‘professionisti dell’antimafia’.