Lo storico e il poeta. L’appassionato itinerario di Arsenio Frugoni nella Divina Commedia di Dante Alighieri

Nel settimo centenario della scomparsa di Dante, nato tra il 21 maggio e il 20 giugno, con molta probabilità alla fine di maggio, del 1265, a Firenze, nell’abitazione degli Alighieri, tra il popolo di San Martino del Vescovo, dinanzi alla torre della Castagna, e morto a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321, la nuova edizione di quattro preziosi saggi sulla Commedia scritti dal dantista Arsenio Frugoni (“Lo storico e il poeta”, Bologna 2021), sotto l’affettuosa ‘curatela’ della figlia Chiara, è un vero e proprio diamante che s’incastona nelle rinnovate e attrattive collane della casa editrice Marietti 1820.


di Francesca Barresi

Per capire che Arsenio Frugoni non fu un semplice 'letturista' della Divina Commedia, bensì una personalità di alto spicco e ampio respiro umanistico, storico e letterario, uno ‘studioso di certa storia medievale, storiografo di eretici e ghibellini’, che per modernità e anticipo seppe distinguersi, con intelligente originalità e assoluto dominio della materia, nella sterminata famiglia dei dantisti, basta attingere senza alcun preambolo, ai suoi stimolanti e acuminati ragionamenti su tre canti della Commedia, da lui a suo tempo, ‘asciugati’ senza mai ombra di ‘gratuità’ e ‘perentorietà’.

Evidentemente scelti non con cieca casualità ma in quanto stemmi contestuali, autentici obelischi poetici, che egli colloca sullo sfondo strategico dell’itinerarium mentis dantesco, a partire dal ricco ’affresco’ su ‘Dante e la Roma del suo tempo’, con cui getta le basi di una mappa concettuale in sviluppo e progressione tra potere spirituale e potere temporale, due fattori che si fondono con le loro evidenti complicanze, a partire dalla Donatio Constantini.

Dopo di chè, disegnata la scena romana, Arsenio Frugoni prende slancio e corre, trascinandoci dentro la geografia mistico-politica attraversata dal Sommo, senza dimenticare di munire il lettore pellegrino, l’appassionato viandante, persino il flaneur che girovaga tra citazioni e detti danteschi, con rara lucidità ermeneutica, di una guida ad uso e orientamento, al fine di giungere a una condivisibile soluzione ‘enigmistica’ delle complessità di vita e di scelte, portate dallo stesso Alighieri fino al paradosso della contraddizione e della negazione, quali si manifestarono in quel groviglio di rapporti politici e ideali, ora qui, finalmente, disancorati e non più sospesi, dentro la pregiudiziale faziosa dell’acerrimo contrasto tra guelfi e ghibellini, papisti e anti papisti.

Così, con una freschezza saggistica pari all’efficacia della sua prosa, Arsenio Frugoni, sembra parlarci da vicino e all'orecchio di cose lontane ma con una sorprendente attualità, persino familiarità, fatto raro e davvero al limite dell'impossibile, in un mondo che si è completamente allontanato dall’epoca e dalla civiltà di Dante, cancellando e seppellendo per sempre, sensibilità, immaginazioni, gusti, passioni, regole e senso delle proporzioni sociali e morali tanto tipiche e affascinanti della cultura medievale.

E riesce a farlo, proponendoci quattro ‘saggi’ che, in filigrana, pare si accordino come in una sinfonia trascinante, con i singoli canti posizionati in ‘ouverture’, giammai incollati ma armonicamente uniti nel porsi l’obiettivo, per essenza di significato ed eloquenza di messaggio, di scagionare Dante dalla troppo sbrigativa accusa non di essere stato ma di aver tradito la parte guelfa, dopo che per titoli ed esami del suo vivacissimo cursus di invettive contro papi, preti e cardinali, era assurto ad araldo dell’anticlericalismo tra gli idealisti e i positivisti dell'Ottocento, gli stessi che risvegliarono in Italia i rancori atavici tra guelfi e ghibellini in versione risorgimentale.

Ma lo fa, al contrario, essenzialmente per darci conto, non tanto dell’irrilevanza e della finitezza di quel fu la veduta ‘particolarista’ dell’illustre fiorentino, laddove lo stesso osservava che “il fine del tutto e della parte è togliere dallo stato di miseria i viventi in questa vita e condurli allo stato di felicità”, quanto dell’immensa, infinita e integrale, visione ‘universalista’ (non è poi la Divina Commedia, chiosava Jorge Luis Borges, che si meravigliava a sentir descrivere il Medioevo come ‘una sorta di lungo sonno dogmatico’, da leggere e comprendere come un ‘libro totale’?) con cui congegnò la sua opera.

La stessa da cui non si può né staccare né cancellare la dimensione religiosa di un Dante battezzato di fede cattolica, fede di precetti e teologie con cui seppe misurarsi proprio nell’infuocato agone politico, da autentico laico credente, non per cercare causa di beatificazione o aura di santità, ma per vivere il suo credo in quel tipo di storia e di società, tanto da essere annoverato, scriverà in un motu proprio Papa Paolo VI, “nel maestoso coro dei poeti cristiani, dove l'aurea cetra, l'armoniosa lira di Dante risuona di mirabili tocchi, sovrana per la grandezza dei temi trattati, per la purezza dell'ispirazione, per il vigore congiunto a squisita eleganza.”

Una tesi che, nel passare e andare oltre gli anelli concentrici del racconto di Frugoni, si cesella nella scultura poetico-biografica dei personaggi dei tre Canti (Farinata, l’epicureo, il terribile cataro consolato, Manfredi e la sorridente regalità di un peccatore di terribili peccati, Matelda di Canossa, anima gentil che prende il Poeta per mano ‘donnescamente’, con grazia femminile...), è quella di dimostrare il superamento, ma in fondo non l'abiura delle posizioni guelfe, dacché ‘il pensiero di Dante è già approdato all’idea dell’impero’, scrive Frugoni, quale geometrico frutto delle dinamiche storiche innescate dal conflitto con i ghibellini, in quanto definitiva assunzione di responsabilità di fronte all’inconciliabilità tra vizio assurdo del potere temporale e virtù donate dal disegno divino dell'unità imperiale, sotto l'occhio vigile del papato.