Forse, mai come in questo frangente storico, al posto di quelle due parole di Ripartenza e Resilienza ne bastava solo una più forte, vitale, propulsiva, generativa: Rinascere, tornare a Procreare l’Italia delle nuove generazioni del futuro. E, invece, il macigno che pesa su questo 75° anniversario della Festa della Repubblica non è più l’emergenza pandemica ma la crisi demografica italiana che costringe il Paese alle culle vuote, all'abbandono culturale dell'arte della dolce vita, all’impatto economico negativo sulla crescita e la qualità della socialità, dell'industriosità e del genio storico che fu stemma della nostra identità di popolo.
di Vito Barresi
In sintesi uno stato di vigilante depressione pubblica, di sorvegliata e assistita malinconia collettiva che si è impadronita del clima sociale e politico dell’Italia, in quanto sentimento pubblico predominante, colore prevalente di un mondo grigio e non più blu, caratterizzato da un sempre più insufficiente confronto democratico, da cui si leva un canto di mestizia e rassegnazione che s’avverte tra i palazzi del potere e le piazze popolari: "la casa sul confine dei ricordi, la stessa sempre, come tu la sai, e tu ricerchi là le tue radici, se vuoi capire l'anima che hai, se vuoi capire l'anima che hai…"
A quel tempo, ai primordi dello Stato Unitario, la piramide demografica era saldamente stabile su una base larga di infanzia, adolescenza e gioventù che al giorno d’oggi è soltanto una foto ricordo, la copertina del famoso concept album di Francesco Guccini, Radici.
Nel 1861, secondo i dati del primo censimento della popolazione, gli italiani residenti nel territorio della neonata' nazione erano circa 22 milioni. Oltre la metà metà aveva meno di 25 anni, uno su tre meno di 15 e uno su 25 oltrepassava la soglia del sessantacinque anni d’età.
La curva di crescita era elastica, attiva, procreativa con alti tassi di natalità pari a quattro volte superiori rispetto a oggi, accompagnati da corrispondenti ed elevati livelli di mortalità: la vita degli italiani durava mediamente poco più di trent’anni. Si moriva da piccoli, consideranto che circa la metà dei decessi erano bambini al di sotto dei sei anni.
Tra il 1901 e il 1999, lungo il corso del XX secolo in Italia, avviene e si conclude una vasta e profonda transizione demografica; i tassi di natalità e quelli di mortalità calano drasticamente; il profilo della scala demografica si tramuta; finito l’effetto del baby-boom, prodotto dall’imponente sviluppo economico e infrastrutturale avviato nel secondo dopoguerra, con il mutamento del quadro culturale, sociale e caratteriale delle donne, si registra un brusco crollo della media di 2,7 figli, per toccare nel 1995 un punto di non ritorno che porta l’Italia al più basso tasso di natalità al mondo: 1,19 figli per donna.
Dopo la pandemia, il crollo della natalità si è ancor di più accentuato e i dati fanno paura, perchè si sovrappongono alle grandi questioni della ripresa e della ripartenza che non potrà avere l’agilità di una gazzella che corre veloce in una foresta ma la lentezza e la pesantezza di un ippopotamo, simile a quello disegnato, per una nota campagna pubblicitaria, dal grande artista e designer Armando Testa: in mancanza di nuove nascite, di nuove famiglie, di una nuova energia generazionale, insomma di un movimento vitale e popolare di Rinascita del Paese, tutto si annoda e si complica improvvisamente, attorno alle sfide dell’innovazione, dell’imprenditorialità, del ridimensionamento della forza lavoro, dell'insostenibilità del sistema previdenziale, dell’urgenza di nuovi sistemi formativi, dell’incalzare dell’immigrazione, del depauperamento del capitale umano, con evidenti rimbalzi di instabilità su scenari ed equilibri politici.
Mai altre volte la Festa della Repubblica è apparsa inibita,condizionata, per certi aspetti succube di questa gigantesca e angosciante 'incertezza' del futuro, questa condanna a non crescere più, quasi fosse ‘caduta’ dentro la scomoda quanto pericolosa condizione di un perfido, insistente, minaccioso, 'malessere demografico' come è stato acutamente denominato e studiato da Antonio Golini, che nel suo libro "Italiani poca gente. Il paese ai tempi del malessere demografico”, già da alcuni anni, ha lanciato l'allarme sul rischio di “implosione” demografica, proprio quando la cultura dominante guardava soprattutto ai rischi dell’“esplosione” demografica.
Tuttavia, accanto alle riflessioni pessimistiche, nel saggio c’è ampio spazio per i messaggi della speranza, con l'esortazione ad affrontare il problema della denatalità non con l'approccio della sconfitta e del destino cinico e baro ma del progetto e dell’apertura condivisa e solidale.
Da qui l'apertura a nuove idee che nascono dal ribaltamento degli egoismi generazionali, dal contenimento di un imperversante cinismo sociale, dalla critica ad alta voce al rozzo e antidemocratico relativismo culturale, dallo scarso sentimento di coesione comunitaria, sociale, nazionale.
Per cui, sostiene l’autore, ordinario di Sociologia dei Processi culturali e comunicativi all’Università di Bologna, non abbiamo ancora capito bene quale sia il nesso forte e vitale che lega la nostra Libertà alla Natalità. E per farcelo comprendere cita, non a caso, un passo cogente della grande filosofa Hanna Arendt che, in Vita Activa, un classico incastonato nella sua vasta opera, scriveva proprio che la Libertà
“è ontologicamente radicata” nel “fatto della natalità”. In entrambe le dimensioni – la libertà e la natalità – ritroviamo non a caso una costitutiva “novità”, un costitutivo essere insieme agli altri (non si nasce, né si agisce da soli), qualcosa che implica l’accettazione della realtà nella quale siamo e insieme la fiducia, la speranza nel futuro. Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane, dalla sua normale, ‘naturale’ rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. E’ in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana che l’antichità greca ignorò completamente. E’ questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘un bambino è nato per noi’”.