Nessuno può nascondersi che il tema centrale dei prossimi anni sarà come far ripartire, non a differenti ma a una sola velocità, l’intero Paese, sia al Sud che al Nord. Le premesse, in vigenza della legge della irripetibilità di vecchi o altri modelli di sviluppo e, quindi, della loro storicità, ci sono tutte anche in base alle valutazioni più recenti della presidente Ursula Von der Leyen secondo cui “il Pnrr italiano è ‘ben allineato’ al Green Deal, con il 37% di misure indirizzate alla transizione climatica, tra cui progetti di efficientemento energetico degli edifici (Superbonus) e per favorire la concorrenza nel mercato del gas e dell’elettricità.”
di Vito Barresi
In tale prospettiva la Commissione Ue ha dato il via libera al 13% di pre-finanziamento all’Italia (circa 25 miliardi), consegnando questo importante risultato al premier Mario Draghi che ha saputo in questi mesi tenere ben in vista l’obiettivo da raggiungere.
Una scelta straordinaria che attesta l’altissimo grado e qualità di “resilienza politica europeista”, cosa forse che prima nessun altro osservatore euroscettico avrebbe data per certa, che rimanda allo spirito, all’utopia concreta e lungimirante, di quel grande padre fondatore delle istituzioni comunitarie che fu Jean Monnet (un laico di vasta cultura mondiale rispettoso della fede dei due ferventi cattolici con cui condivise il sogno europeo, Robert Schuman e Alcide De Gasperi) che accolse nella formula del Trattato di Roma anche un “Protocollo concernente l’Italia” nel quale si faceva menzione diretta dei problemi del Mezzogiorno e delle azioni che il Governo italiano aveva in atto per trovarne finalmente soluzione.
Tuttavia, gli ormai leggendari anni ’50 del dopoguerra, della ripresa e poi del boom economico, sono ormai lontani e fanno parte di una spesso malinconica memoria storica.
Non fosse altro perché se, a quel tempo, la Comunità economica europea, istituita a Roma il 25 marzo 1957, era a sei (Italia, Germania, Francia e i tre paesi del Benelux), a nove nel 1973 con l’ingresso della Gran Bretagna, e poi ancora a dodici, oggi è composta da ben 27 Stati, numero questo che ha cambiato il peso delle popolazioni, di fatto dimezzando l’incidenza percentuale del Mezzogiorno, che da circa il 10 scende ora a quota 4,5 per cento.
Già di per se la riduzione di tale importante “imponibile demografico”, che ha il suo peso nella assegnazione dei fondi, porrà non pochi problemi di contrattualità alla politica italiana nei confronti dell’Unione, poiché in essa stessa si intravede non solo, in negativo, il vincolo oggettivo a non sperperare le risorse a casaccio, ma anche l’incentivo positivo a qualificare gli investimenti in direzione dell’alta aggiuntività degli interventi di sostegno, che non siano a pioggia, assistenzialistici e non finalizzati allo sviluppo economico innovativo ed ecologico e alla coesione sociale.
Da qui il ritorno a quel che Pasquale Saraceno, indimenticabile meridionalista e Presidente dell’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno (Svimez), definiva “i problemi di un processo di unificazione economica”, in funzione dello sforzo di unificare più economie nazionali per rendere più omogeneo il mercato comunitario, e in vista di una diminuzione dei divari esistenti tra varie aree nazionali e regionali, impedendo e o ponendosi al riparo dalle possibili “crisi di adattamento”.
Adattamento, che oggi va inteso in quanto risposta resiliente e capacità di progetto innovativo, dunque, in termini di vera innovazione ecologica.
Un fattore di rischio e di crisi reale, un problema complesso e delicato che nelle Regioni del Mezzogiorno, specialmente la Regione Calabria, diventerà presto cruciale per se si vuole davvero dare forma e sostanza alla ripresa post Covid.