L’urgenza di nuove forme di presenza cristiana e nuovi tempi di annuncio, con nuovi linguaggi per la comunicazione del Vangelo in un mondo ormai cambiato è improcrastinabile. Si comprende allora quell’insolita predica fatta dal cardinale Bassetti nella celebrazione dell’Eucarestia all’ultima Assemblea generale della CEI: “abbiamo bisogno di inventariare nuovi linguaggi, pensando soprattutto alle giovani generazioni, magari attingendo i significati del nostro comunicare anche dalle canzoni popolari, come faceva Pierre Duval, più di cinquant’anni orsono, quando con la sua chitarra e con le sue canzoni portava il Vangelo nei pub e nei luoghi pubblici”.
di + Antonio Staglianò
Un antesignano della Pop-Theology? Forse! Certo c’è da “pensare insieme” circa le strade da percorrere, per ridare vitalità al cristianesimo, oggi e qui. La famosa battuta di Woody Allen – “Dio è morto, Marx è morto, Freud è morto … e anche io oggi non mi sento tanto bene” - è sicuramente un esempio di come si possa intervenire con linguaggio pop su questioni decisive (filosofiche) per la nostra civiltà europea, riflettendo in modo profondo sulla crisi che sta attraversando non soltanto la religione o il cattolicesimo, ma la stessa convivenza civile.
Dopo la “morte di Dio” (e di tutti gli altri, anche di chi ne ha cantato il ritornello, immaginando un futuro da “superuomini”), l’umano dell’uomo non sta bene, non gode di buona salute e la sua resistenza nella vita non è più tanto sicura. Non è che per effetto “domino”, la morte culturale di Dio si è trascinato con sé anche la morte dell’uomo? In crisi è appunto quell’umanesimo (senza Dio) che sembrava prospettarsi come futuro radioso, almeno in Occidente.
La battuta di Woody Allen pone la questione di fondo: non è in crisi l’umano, fino al punto che potrebbe scomparire? Nell’apologo di Nietzsche, l’uomo che con la candela accesa, a mezzogiorno, in piazza, “cercava Dio”, era deriso dagli astanti e se ne andò, stizzito, a predicare la “morte di Dio” nelle chiese. Scacciato a malo modo da ogni chiesa, egli puntualmente affermava, più o meno così (cerco di ricordare a memoria): “perché, cosa sono queste vostre chiese se non le tombe e i sepolcri di Dio; e non sentite il puzzo nauseante della decomposizione del suo cadavere?”.
Parole dure che, soprattutto noi cattolici, dovremmo riascoltare, per interrogarci allo specchio delle critiche “esterne”, spesso troppo impietose, ma necessarie, per non perdere la bussola del nostro orientamento cristiano. Il rischio della pratica religiosa è sempre quella registrata anche nella lunga storia del popolo di Israele: la religione stessa - tentata dall’ipocrisia dell’apparenza che coltiva più l’immagine di sé (ricostruendo il volto santo di Dio a propria immagine e somiglianza) e non la verità della propria umanità (creata secondo l’immagine di Dio, Il Signore Gesù) - diventa ostacolo alla vera fede.
E cosa è una religione senza fede? Applicando l’interrogativo alla esperienza cristiana del cattolicesimo: cosa sarebbe il cattolicesimo senza cristianesimo? Concordo con il lettore: sto annoiando con quello che ormai denominiamo “cattolicesimo convenzionale”, una religione senza fede (una sorta di paradossale ateismo religioso) concretamente possibile addirittura nelle nostre comunità di cristiane, nelle nostre parrocchie.
In Lc 18,8 la provocazione di Gesù fu sorprendente: “Il Figlio dell’uomo, quando verrà troverà la fede sulla terra?” La fede è quella nel Dio di Gesù: Dio-agape, solo e sempre amore. Si tratta di un Dio che non uccide e non comanda a nessun fedele di uccidere nel suo nome: not in my name (mai nel mio nome). Snaturare questa fede in Dio amore, nella credenza proiettata su una “maschera di Dio”, che – per giustizia- applicherebbe la legge del taglione e, comunque, punirebbe anche con la morte o la malattia o il dolore come castigo per la malvagità umana, significherebbe non credere cristianamente.
Anche se si entra nelle chiese cattoliche a pregare “quel Dio”, non si dovrebbe trovare alcun ascolto, per il semplice fatto che “quel Dio” non esiste: parola di Gesù di Nazareth. Potremmo allora comprendere l’aiuto che proviene dalla “bestemmia” di chi proclama la necessità della morte di Dio affinché l’uomo viva, perché magari ha fatto di Dio l’esperienza di un legame “asfissiante”, mortificante, o addirittura schiavizzante.
È l’incoraggiamento alla “riflessione critica” (a una interrogazione non negligente) che tutto il popolo cattolico doverosamente si farà: non è che Dio sta sparendo anche dalle nostre chiese, essendo già sparito da un pezzo, per il processo di secolarizzazione, dalle nostre case e dal nostro costume, dal nostro ethos quotidiano? È questione che coglie il senso stesso della fede cristiana, troppo spesso ridotta (intellettualisticamente) alla “conoscenza di cose misteriose o strane dottrine”, piuttosto che alla pratica obbediente del comandamento dell’amore unico (e singolare) di Gesù: “come io ho amato voi, voi amerete”; “alla mia sequela voi sarete uno, come il Padre è in me e io sono nel Padre”.
La fede cristiana è fides quae per caritatem operatur, la fede che opera attraverso l’amore (Gal 5,6): e l’amore è quello stesso di Dio, innestato nel cuore del credente, cioè lo Spirito Santo. Ecco la fede nel nucleo incandescente, cioè l’abitazione dello Spirito santo, nella cui potenza e forza tutte le forme pratiche dell’umano dell’uomo vengono compiute, perché l’umanità dell’uomo splenda nella “bellezza umana” della umanità “buona e vera” di Gesù di Nazareth. Proprio questa bellezza – riferita al volto santo di Dio, manifestato da Gesù- è il centro dell’inquietudine del cristiano: dov’è Dio, il vivente, il risorto nell’esistenza umana? È possibile vivere umanamente – nell’umanità degna dell’uomo - senza accogliere la Parola di Dio e fare esperienza dell’incontro con Lui nell’amore? Come ritessere le relazioni umane con tutti – perché tutti sono fratelli e figli dell’unico Padre - in una convivenza civile pacificata dal perdono cristiano?
La domanda che potrebbe stare dietro a queste domande, bisognose di risposte non aleatorie è la seguente: che fare per costruire le condizioni di un “discernimento ecclesiale” appassionato, capace di integrare tutti i punti di vista nell’unico “verso”, l’amore di Gesù manifestato nell’eucarestia?
A Firenze, Papa Francesco ha suggerito il “metodo sinodale” e, dunque, nell’ultima assemblea della CEI (maggio 2021) la Chiesa italiana ha pensato bene di attivare nella diocesi italiane un “cammino sinodale” per dare il proprio contributo a questo discernimento, cui tutta la Chiesa cattolica è interessata in questo tempo di cambiamento epocale: «mi piace una Chiesa italiana inquieta», disse il Papa, «sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti».
Padre Spadaro – Direttore di La Civiltà Cattolica- ha sottolineato in suo recente intervento sul bisogno della Chiesa di ritrovarsi in una condizione sinodale: «Oggi i credenti sono chiamati a remare con tutti, e a farlo con la consapevolezza di essere anche cittadini. E questa è pure una vera “sfida” culturale, che è molto di più che un progetto. Sarà necessario, dunque, parlare dell’annuncio del Vangelo e delle sue difficoltà in un mondo mutato dalla pandemia, dagli stili di vita mobili, fluidi, veloci, plurali, dalle verità “alternative” dei social network e da tanti altri cambiamenti».
Ci si dovrà avvicinare alla “interiorità più profonda” – per dirla con le parole di Romano Guardini che spiega cos’è stato il “sacrificio”, nel commemorare i giovani della Rosa bianca -, proponendosi “il discernimento delle cose essenziali”, impegnandosi a “superare la sconfinata confusione dei concetti” e, soprattutto, a vincere “il terribile travisamento e imbrattamento dei valori spirituali”.